Paolo Valenti aveva 36 anni. Il 9 settembre 2019 per lui sarebbe dovuto essere un giorno come gli altri: saluta la moglie e i 3 figli piccoli e va nei boschi sopra Tione (Trento). Ma quel giorno non è come gli altri. Paolo cade mentre sta lavorando al taglio del bosco, precipita per oltre 10 metri e muore. Dinamiche differenti, con esito tragicamente uguale, in provincia di Matera, qualche tempo prima: a fine agosto i corpi di Donato Telesca e Leonardo Nolè, 53 e 54 anni, vengono ritrovati in fondo al pozzo di una discarica di rifiuti. Erano lì per un controllo di routine. Probabilmente sono state le esalazioni di anidride carbonica a ucciderli, ma solo l’inchiesta della procura lucana farà luce sull’accaduto. E poi ci sono Dario, 67 anni, precipitato dal tetto della sua azienda a Brescia; Davide, 30, incastrato tra 2 rulli di un macchinario a Varese; Vincenzo, operaio di 57 anni, sepolto dal terreno mentre era impegnato negli scavi per la realizzazione di una fognatura a Benevento. E i 4 lavoratori di un’azienda agricola del Pavese annegati in una vasca di liquami il 12 settembre.

Molti incidenti non vengono denunciati

Le chiamano “morti bianche”. E sono in netta crescita rispetto al passato: gli ultimi dati Inail dicono che tra gennaio e il 31 luglio 2019 sono state 378.671 le denunce di infortuni sul lavoro, 599 delle quali con esito tragico (+2% rispetto agli stessi mesi dell’anno precedente, 12 in più rispetto alle 587 vittime del 2018). Parliamo, in media, di 3 incidenti mortali al giorno. E i dati, peraltro, risultano sottostimati. «Innanzitutto perché in Italia è molto diffuso il lavoro nero e chi è impiegato senza contratto non denuncia infortuni» spiega Sebastiano Calleri, responsabile nazionale salute e sicurezza della Cgil. «Inoltre, intere categorie non sono conteggiate. L’Inail, cui sono iscritte le aziende ma non direttamente i lavoratori, non dispone di una banca dati incrociata con quella dell’Inps per rilevare quanti siano esattamente gli infortuni».

Non rientrano nel conto, per esempio, i rider come il 19enne Alberto Piscopo Pollini, travolto a Bari da un’auto mentre in scooter recapitava a domicilio una cena. Non sono conteggiate neanche le forze dell’ordine, al cui computo pensa la ong “Cerchio Blu”, gestita direttamente da alcuni agenti di polizia, che da inizio anno annovera ben 40 suicidi sul posto di lavoro. E mancano anche stime per i Vigili del fuoco e gli sportivi. «Siamo in presenza di una vera e propria strage silenziosa» spiega Calleri, che identifica le cause principalmente in precariato diffuso, mancanza di controlli, tagli alle spese per la prevenzione e la sicurezza. «Uno dei problemi principali riguarda la filiera degli appalti. Il subappalto non corretto, soggetto a ribassi eccessivi che comprimono i costi per la sicurezza, è la prima causa di infortuni e malattie professionali».

Le regioni con più infortuni sono Lombardia e Puglia

A latitare sono, dunque, innanzitutto gli investimenti delle aziende in sicurezza: «In Lombardia (dove gli incidenti mortali denunciati in un anno sono passati da 83 a 88, ndr) diverse società, complice anche la continua delocalizzazione, hanno scelto di ridurli per concentrarsi sulla produzione». Situazione drammatica anche in Puglia, dove nei primi 7 mesi del 2019 ci sono stati 16 casi mortali in più rispetto allo stesso periodo del 2018. «Al Sud il dramma si lega ai lavoratori nei campi, stagionali e dunque precari, costretti ad accettare condizioni sempre più degradanti» spiega Calleri. Non è un caso che lo scorso anno, su 20.025 accertamenti dell’Ispettorato nazionale del lavoro, 16.394 aziende siano risultate irregolari: è circa l’82%, con un aumento sul 2017 di quasi il 5% del tasso di irregolarità.

«Purtroppo si procede troppo lentamente e con poche risorse» chiarisce Zoello Forni, presidente dell’Anmil (Associazione nazionale fra lavoratori mutilati e invalidi del lavoro). «Tanto che, anziché salire, il numero delle ispezioni effettuate nel primo semestre 2019 è diminuito del 9% rispetto allo stesso periodo del 2018». Neanche il precariato aiuta: «Se sei un lavoratore a tempo, accetti condizioni al ribasso pur di non perdere il posto» ragiona Calleri. Ma in definitiva quello che manca, secondo Forni, «è una cultura diffusa della prevenzione. Per inculcarne l’importanza occorre cominciare a scuola: l’Anmil da tempo porta avanti progetti, dalle elementari alle università, incontrando centinaia di migliaia di studenti». Però c’è tanto ancora da fare: non è un caso che il nostro sia l’unico Paese Ue a non aver mai adottato un Piano nazionale sulla sicurezza dei lavoratori, nonostante ciò comporti la potenziale apertura di una procedura di infrazione comunitaria.

I processi per i risarcimenti sono lunghi e complessi

Oltre che sulla prevenzione, l’Italia è indietro anche su un altro fronte: quello della giustizia, sia penale sia civile. «Senza controlli si indebolisce la forza della legge, ma lo si fa anche se non si ottiene una sentenza veloce e non si ha la certezza della pena » spiega Forni. Troppe sono le storie di famiglie che devono aspettare anni. I casi più ostici sono quelli dei lavoratori non in regola, perché in caso di infortunio l’Inail deve stabilire un nesso certo e causale tra danno e lavoro svolto, calcolando un eventuale risarcimento sul minimo retributivo per quella mansione. Un procedimento che richiede anni e fiumi di carta. Ma fatica a ottenere giustizia anche chi è regolarmente assunto.

Come Irene Cilio, vittima nel 2012 di un incidente gravissimo: «Sono stata investita da un’esplosione mentre sostituivo alcune bombole di ossigeno al Centro di medicina iperbarica di Massa Carrara. Ho riportato ustioni su tutto il corpo, fratture, danni all’orecchio e sindrome post-traumatica da stress. La forza per ricominciare è venuta da mio figlio. Lui aveva 1 anno e mezzo, io 31. Ma determinante è stata la mia decisione di chiudere l’iter legale. Dopo 6 anni il processo non era ancora iniziato. Pur di uscirne ho accettato un accordo al ribasso. Non potevo continuare così».

Oggi Irene ha ricominciato a lavorare e a vivere: «Mi occupo di amministrazione in un’azienda e ho ripreso a studiare, sogno di fare l’insegnante». A non darsi pace è invece Paola Armellini, mamma di Matteo, il ragazzo di 32 anni morto in Calabria mentre montava il palco per un concerto di Laura Pausini: «Da quel 5 marzo 2012 siamo arrivati a una sentenza solo quest’anno. Pur abitando a Roma, non ho mai saltato nessuna delle 35 udienze, lo devo a mio figlio. I 6 condannati, però, hanno fatto ricorso in appello e le prime 3 udienze del nuovo processo sono state tutte puntualmente rinviate, con il rischio prescrizione all’orizzonte. Per la morte di mio figlio ho avuto solo il rimborso Inail: 1.900 euro. Ecco, è giustizia questa?».

I settori e le regioni più a rischio

Secondo i dati Inail di luglio 2019, nei primi 7 mesi dell’anno i morti sul lavoro sono stati 599. L’ambito professionale più esposto a rischi è l’agricoltura: gli infortuni sono aumentati dell’1,1% (passando da 18.732 a 18.946) e le vittime sono state 78 (rispetto alle 56 denunciate nello stesso periodo del 2018). Altri settori pericolosi sono quello manifatturiero (59 denunce di infortuni mortali), edile (55 denunce) e dei trasporti (45 denunce). La regione più colpita da morti bianche è, in termini assoluti, la Lombardia (88), seguita da Lazio (59) e Veneto (54). L’aumento più significativo si è avuto in Puglia, dove si è passati dalle 24 vittime del 2018 alle 40 del 2019.

I numeri

599 Le denunce all’Inail di incidenti mortali nei primi 7 mesi del 2019. Sono 12 in più rispetto al 2018. 45-54 La fascia d’età dei lavoratori più coinvolti in infortuni. 410 I milioni di euro che nel triennio 2019-2021 sono stati tagliati dai piani di investimento nazionali per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro. 41 Le vittime in Lombardia fino al 2 settembre per il Registro regionale infortuni. Secondo l’Inail, invece, sono almeno 88 (la maggioranza si è registrata nel mese di agosto, quando i controlli diminuiscono).