Quanto dolore nella storia di Giovannino, il bimbo lasciato dai genitori all’ospedale Sant’Anna di Torino. Prima di tutto il suo, che nessuno di noi può sapere né provare. Il dolore di un fagottino con una malattia rarissima, l’ittiosi Arlecchino, un nome tanto simpatico quanto surreale per una patologia che “pezza” la pelle e marchia le vite. Colpisce meno di un bimbo su un milione, lascia poche speranze di vita e chi viene “graziato” ha un’esistenza difficile tra gravi problemi cutanei e agli organi interni, difficoltà di movimento e ritardi cognitivi. Si è scatenata una gara di solidarietà per adottarlo: centinaia di chiamate di aspiranti genitori, pronti col cuore che trabocca amore e le braccia così forti da scaldare il gelo di una condanna affilata come una lama.
Il dolore dei genitori
Ma di dolore ce n’è un altro e nessuno ne parla. Anche quello non possiamo conoscerlo né provarlo però ci sentiamo di giudicarlo: il dolore di una coppia di cui non sappiamo nulla, se non che aveva cercato il bambino ricorrendo alla PMA, la Procreazione medicalmente assistita. L’onda emotiva che è montata dopo la notizia dell’abbandono ha travolto tutti: si sono scritte e dette “di pancia” le parole più facili contro questi aspiranti genitori che quando lo sono diventati hanno rimandato indietro ciò che la scienza non era riuscita a confezionare per loro in modo perfetto. Ogni bambino merita di essere profondamente amato e accudito, sempre e comunque, ma oggi occorre ritrovare un senso di pietà e compassione verso chi, con tutta probabilità, ora si trova in un abisso. E chi non passa attraverso questa sofferenza non può neanche intravederla, tanto meno giudicarla. L’unica cosa che possiamo sforzarci di fare è immaginare il vuoto in cui stanno precipitando oggi questi genitori, distrutti da un gigantesco senso di inadeguatezza che li accompagnava prima e che ora di sicuro non li lascerà più.
I pregiudizi intorno alla PMA
«Immagino la mamma devastata, senza pace all’infinito perché non esiste un modo per fare pace con tutto ciò. Immagino i suoi pensieri: aver fatto il possibile per averlo, il suo bambino, aver stretto per anni quel pensiero, quel sogno in cui investi così tante energie, emozioni, tempo, e poi lasciarlo. Vuol dire scontrarsi con un fallimento totale: prima sentirsi incapaci di fare ciò che agli altri viene facile (a volte senza neanche sceglierlo) e poi vedere che tu sei stata in grado solo di fabbricare artificialmente tanto dolore, una vita che “per colpa tua” combatterà giornate senza giochi, senza corse, senza un futuro di progetti e sogni. A questa mamma oggi non pensa nessuno se non mettendo all’indice ciò che ha fatto. Ma lei lo sa che dopo aver dato la vita al suo bambino ora lo sta uccidendo, sa che anche lei col suo abbandono lo sta facendo morire un pochino». Manuela è una donna di 44 anni e per tanti anni ha provato ad avere un bimbo con la PMA, senza poi riuscirci. Con tante altre donne e uomini, ha raccolto la sua storia nel blog e nel libro Parole fertili. Conosce bene le sfumature della sofferenza, le cliniche dove diventi un numero, le domande che non ti fanno dormire di notte, i conflitti drammatici in coppia, alla fine mai risolti. È un mondo, questo della PMA, che conosciamo poco, un vuoto di informazione che riempiamo di pregiudizi e luoghi comuni.
La solitudine dei neo-genitori
La verità è che qualsiasi genitore si sente solo quando deve fronteggiare un evento così drammatico come la nascita di un figlio gravemente disabile. Un evento a cui può anche non arrivare preparato, e che sconvolge il suo mondo. Prima di giudicare, chiediamoci piuttosto che tipo di aiuti sono stati prospettati alla mamma di Giovannino, che rete esiste nel contesto in cui vive, che possibilità economiche possiede questa famiglia. Non sempre in Italia lo Stato è presente. Esistono le esenzioni dalle cure, i farmaci passati dal servizio sanitario nazionale, gli educatori mandati a casa, ma dipende dalla regione e dal comune in cui si abita. Certi aiuti sono demandati ai comuni e i comuni a loro volta orientano il bilancio su fronti diversi. E poi, compiuti i 18 anni, si comincia a navigare in un mare sconosciuto. E lì sì che sei solo. Il rischio quindi, per molte famiglie, è di affrontare la disabilità di un figlio in solitudine, tra mille difficoltà.
Le difficoltà di chi sceglie la PMA
E chi sceglie la PMA, la solitudine la conosce bene. «La coppia esplode. Di fronte alla difficoltà di avere un figlio e alle soluzioni possibili, irrompe il conflitto. Che spesso resta irrisolto, imprigionato dentro una bolla di cose non dette, inconfessate anche a se stessi: non è scontato trovarsi d’accordo sull’adozione o sull’eterologa e che ognuno risolva i suoi dubbi e le sue paure più profonde. Finisce che te le vivi dentro di te, perché le parole non esistono, non bastano, sfuggono a tanto dolore. Posso forse immaginare la solitudine di questa mamma alla notizia della malattia del suo bambino, lo smarrimento, il senso di sconfitta totale, il peso di una sorte che ha giocato contro. Esistono dei limiti che non tutti possiamo superare. Non tutti ce la fanno a sostenere certi macigni». Occorre una rete intorno, occorre un sostegno psicologico, soprattutto nel momento in cui viene comunicata una diagnosi del genere. Non sappiamo come sia stata data la notizia di Giovannino ai genitori, se fosse presente uno psicologo, chi ha provato ad aiutare questa coppia. Di sicuro sappiamo che loro si porteranno dietro il peso di questa scelta per tutti i giorni a venire. Non esiste assoluzione per la mamma e il papà di Giovannino. Già questo è una condanna sufficiente. Non giudichiamoli.