Da giorni si parla di No Fly Zone: l’ha chiesta agli Stati Uniti il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ma la Casa Bianca si è detta contraria. Ora anche l’Italia ha risposto nello stesso modo con il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che ha chiarito: «Siamo pronti a fornire sostegno e assistenza all’Ucraina, ma l’Italia è contraria alla No Fly Zone e all’invio di aerei nel Paese». Il motivo è chiaro: «Non possiamo dare aerei a Kiev, significa entrare in guerra».
Ma non è sempre stato così. In passato l’Italia ha aderito con i nostri aerei militari a una No Fly Zone.
Cos’è la “No Fly Zone”
«La No Fly Zone è una decisione che alcuni paesi possono prendere, che sia uno stato o un’alleanza, e permette di impiegare forze aeree militari, in genere pattuglie di aerei da caccia, per vietare il sorvolo di uno Stato, di una regione o una città, come chiesto nel caso dell’Ucraina per Kiev. Il presidente Zelensky, infatti, ha invocato questa misura per evitare che ci siano bombardamenti sulla capitale» spiega Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa, giornalista già reporter in teatri di guerra.
Perché si dice di no alla No Fly Zone
I motivi per i quali sia gli Stati Uniti che gli Alleati (e l’Italia) finora hanno detto “no” sono legati ai rischi di un innalzamento ulteriore dello scontro, che si potrebbe estendere ad altri Paesi della Nato. «Sul piano giuridico la No Fly Zone è una violazione di uno spazio aereo di un Paese, a meno che non ci sia una autorizzazione da parte di quest’ultimo. Nel caso dell’Ucraina sarebbe su richiesta diretta del presidente Zelensky, che è sotto attacco da parte dei russi. Ma il problema riguarda le conseguenze. Mettiamo che si sia imposta e venga intercettato un aereo russo: la pattuglia Nato gli intimerebbe di lasciare lo spazio aereo ucraino, ma se questo non lo facesse scatterebbe un lancio di missili. Se l’aereo russo fosse abbattuto, è immaginabile che la reazione sia un lancio di una batteria di missili a lungo raggio, da parte russa, per abbattere gli aerei della Nato. Se ciò accadesse ci troveremmo sull’orlo di una guerra tra due colossi – Nato e Russia – che insieme hanno un arsenale nucleare pari a circa 3000 testate pronte all’impiego, oltre ad altre 10mila di riserva. Sarebbe un azzardo che in questo momento nessuno è disposto a compiere» spiega l’esperto di analisi strategiche e conflitti.
No Fly Zone: un problema anche giuridico
Un altro aspetto da non trascurare riguarda il ricorso all’impiego diretto e sul campo, di personale e mezzi anche italiani in un conflitto. Già l’autorizzazione all’invio di armi in Ucraina ha sollevato più di un dubbio di tipo giuridico, soprattutto sull’aspetto di co-belligeranza del nostro Paese. Con una eventuale No Fly Zone la situazione sarebbe ancora più delicata: «Se fornire armi all’Ucraina per distruggere i carri armati o i missili russi è una forma di belligeranza indiretta, entrare nello spazio aereo del Paese con pattuglie Nato – dunque anche potenzialmente con caccia italiani – rappresenterebbe un’azione di belligeranza a tutti gli effetti» spiega Gaiani.
Il precedente della Libia
Il nostro Paese, però, in passato ha aderito a una No Fly Zone, per esempio in Libia contro Muhammar Gheddafi. «In quel caso si decise la misura per impedire agli aerei di Gheddafi di bombardare i ribelli che la Nato sosteneva e a fronte di una risoluzione Onu. In quel caso – spiega ancora l’esperto – furono impiegati anche aerei italiani, fortunatamente senza perdite, ma le condizioni erano differenti. Oggi il rischio di combattimento aereo tra mezzi della Nato e dell’aeronautica russa è elevatissimo e rappresenterebbe l’anticamera di un conflitto ancora più ampio».