Nadia Murad, 25 anni, vincitrice del Premio Nobel per la Pace 2018, aveva 21 anni quando è stata rapita dai miliziani dell’Isis, nel 2014. Viveva a Kocho, un piccolo villaggio yazida nel nord dell’Iraq insieme ai fratelli e alla madre. Ad agosto il villaggio era stato messo sotto assedio, le case saccheggiate e bruciate, gli uomini uccisi, le donne e i bambini portati via. Lei, come tante altre ragazze, venne venduta come schiava, stuprata, picchiata e umiliata, forzata a convertirsi all’Islam e passata di padrone in padrone, torturata fisicamente e psicologicamente.
La sua storia in un libro
Una storia feroce, che Nadia ha raccontato nel libro L’ultima ragazza, in cui descrive tutto: i giorni tranquilli prima del rapimento, l’incubo della prigionia, la fuga rocambolesca con il terrore di essere riportata all’inferno, il dolore per i familiari uccisi, il campo profughi. È la testimonianza di un genocidio perpetrato nei confronti della popolazione yazida, perseguitata dall’Isis perché ritenuta infedele e adoratrice del diavolo.
«Gli jihadisti non sono riusciti ad annientarmi» scrive Nadia nel libro, raccontando i terribili momenti in cui è stata trascinata via dal villaggio, separata dalla famiglia e molestata. «Ogni secondo con l’Isis era una specie di morte lenta e dolorosa, del corpo e dell’anima. Quello sull’autobus con Abu Batat (uno degli jihadisti che la rapirono, ndr) fu il momento in cui cominciai a morire».
L’incontro in Germania nel 2017
Oggi Nadia ha vinto il Premio Nobel per la Pace ed è la prima ambasciatrice di Buona Volontà dell’Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta degli esseri umani. Era stata già candidata due volte al Nobel per la Pace. Ha parlato della sua vicenda nel dicembre del 2015 alle Nazioni Unite, facendosi portavoce delle sofferenze della sua gente e chiedendo una presa di posizione. «Voglio che venga riconosciuto il fatto che c’è stato un genocidio e che la nostra comunità sta scomparendo e va protetta» dice. La incontro in Germania a fine 2017. È piccola e magra, ha lo sguardo malinconico. Sembra stanca, ma ha voglia di denunciare e parlare, nonostante l’Isis abbia fatto di tutto per annientarla. Chiede che i responsabili di queste atrocità siano processati per i loro crimini e che altri Paesi, come l’Italia, sappiano chi sono gli yazidi e cosa è successo. «Perché l’Isis è stato spinto fuori dall’Iraq, ma l’ideologia rimane, sostenuta ancora da molte persone. È ovunque ed è pericoloso».
Il genocidio degli yazidi
Mi ricorda gli attentati in Egitto e negli Stati Uniti. Le chiedo se non ha paura. «Ho ricevuto delle minacce quando ho cominciato a dire quello che è successo. Non temo tanto per me, quanto per la mia famiglia che è rimasta in Iraq, per i 350.000 yazidi nei campi profughi, per chi vuole tornare nello Sinjar (la regione dell’Iraq dove fino al 2014 abitava la maggior parte degli yazidi, ndr) ma non ha più una casa». «La gente deve sapere per fermare l’orrore». Prima dell’Isis, gli yazidi erano circa mezzo milione. «75.000 sono emigrati, circa 100.000 sono stati uccisi o rapiti. 3.000 sono ancora prigionieri degli jihadisti. Siamo un piccolo gruppo religioso a cui non vengono riconosciuti i diritti perfino nel Paese in cui viviamo. Molte persone nel mondo non sanno nemmeno che esistiamo. Io credo che l’Occidente ci debba aiutare» dica Nadia.
L’aiuto di Amal
Al suo fianco c’è Yazda, un’organizzazione no profit con sede negli Stati Uniti che fornisce appoggio, aiuti e rifugio alle vittime del genocidio. Sono loro che le hanno chiesto se voleva diffondere la sua storia. Amal Clooney, la moglie del divo hollywoodiano, è l’avvocato che la sostiene dalla primavera 2016, insieme ad altre vittime della strage, per far sì che i colpevoli vengano catturati e puniti. «È stato Luis Moreno Ocampo, l’ex procuratore capo della Corte penale internazionale dell’Aia a consigliarmi di rivolgermi a lei. Amal ha scritto nell’introduzione del mio libro che sono una combattente, un simbolo per tutte le donne. A lei ho raccontato tutto quello che era successo a me e ad altre centinaia di ragazze yazide. Ho cercato di parlare per loro e per tutti coloro che soffrono, per le altre minoranze perseguitate, per le vittime di violenza sessuale anche di altre guerre. È giusto che la gente sappia, per poter fermare questi orrori». «Vorrei tornare in Iraq e vivere in pace».
Nadia è orgogliosa di quello che sta facendo, ma a volte, le «sembra una responsabilità enorme, un po’ troppo per me. Voglio continuare a lottare, però anche cominciare a pensare un po’ al mio futuro». Tornare a scuola? «Non so se sono in grado di ricominciare». Tra i suoi sogni di ragazzina c’era quello di diventare make up artist. «Chissà se ci riuscirò». Intanto dalla Germania lancia il suo grido d’allarme: «Noi yazidi vogliamo tornare nella nostra terra, per vivere in pace, senza avere paura che l’Isis o un altro gruppo religioso ci renda nuovamente schiavi in nome di una ideologia. Questa violenza deve finire. Nessun’altra ragazza deve subire la mia stessa esperienza».
Per saperne di più: chi sono gli yazidi
Gli yazidi sono una piccola comunità religiosa che ha subìto diverse discriminazioni nella storia. Prima del 2014 metà della popolazione, che ammontava a circa 500.000 persone, viveva nella regione del Sinjar iracheno. Per lo yazidismo non è consentita la conversione ad altre fedi e gli yazidi si sposano solo tra di loro. Sono considerati infedeli dall’Isis perché la loro religione, tramandata per lo più oralmente, venera “l’Angelo Pavone”, dagli jihadisti considerato il diavolo.
A inizio dicembre 2017 la maggior parte dei territori iracheni e siriani è stata liberata dallo Stato Islamico. Nella battaglia di Mosul sono morti tra i 9.000 e gli 11.000 civili. Il 2 dicembre sono state scoperte 2 nuove fosse comuni a nord dell’Iraq. Con 140 cadaveri, tra cui donne e bambini