Nel suo profilo Facebook alla voce lavoro c’è scritto “genitore a tempo pieno”. Francesca Buono, 45 anni, è la mamma di Christian, 15 anni, e di Beatrice, 12 anni. La sua terza figlia, Elena, oggi avrebbe 9 anni se non fosse morta a due settimane dal parto nella pancia di Francesca a causa di una trombosi placentare, un evento forse imprevedibile e forse no. Da settimane Francesca sentiva una fitta acuta e intermittente sotto lo sterno ed era corsa tre volte in ospedale, la sua ginecologa era in ferie e i medici l’avevano congedata: «Tutto a posto signora».
Intanto la culla era pronta, nella valigia per l’ospedale mancavano giusto le ultime cose e nessuna posizione era più buona per dormire: «Quella mattina stavo bene, poi ho sentito la bambina dentro di me muoversi ininterrottamente per quindici minuti. Ho chiamato mio marito: “Elena scalcia come una matta”, lui si è messo a ridere, io anche. Poi il silenzio. All’inizio non ci fai caso. Mi sono messa sul fianco sinistro per svegliarla, lei odiava quella posizione, mi sono fatta un bagno caldo, ho mangiato. Non succedeva niente. Avevo paura e l’unico pensiero rassicurante era che nel primo pomeriggio avevo appuntamento con la mia ginecologa. Sul lettino cercavo di sdrammatizzare ma l’ansia mi era entrata nella pelle: “Questa bimba oggi è monella, dottoressa”».
«L’ho vista un attimo sul monitor, aveva una manina sulla guancia, non sentivo il tam tam del suo cuore ma ho voluto credere che l’ecografo fosse senza volume. La ginecologa ha voltato il monitor verso di sé, ha provato a cambiare ecografo, non diceva niente. Io fissavo il soffitto, non sapevo dove puntare lo sguardo. Poi ha poggiato la sonda e ci siamo guardate: “Francesca, la sua bambina non c’è più”. Io ho pensato: “Va bene adesso partorisco e la rianimano”. Come fai ad accettare che quelli che avevi scambiato per gioiosi movimenti erano i minuti in cui la tua bambina stava cercando disperatamente l’aria, che non sei più un corpo pieno di vita ma la tomba di tua figlia?».
Elena è uno dei 1.400 bambini che ogni anno in Italia muoiono mentre sono ancora nella pancia della mamma, al terzo trimestre di gravidanza
Uno ogni cinque giorni. L’associazione Ciaolapo, fondata dalla psichiatra Claudia Ravaldi e da suo marito dopo aver perso Lapo a 38 settimane di gestazione dodici anni fa, è nata per sostenere le famiglie e per sensibilizzare gli operatori. «Quando è morto il mio bambino il lutto perinatale era trattato come un “incidente di percorso”, non esisteva nessuna formazione specifica per il personale ospedaliero e non venivano fatte diagnosi per accertare le cause di morte. Io sono stata congedata con questa frase: “La prossima volta andrà bene, ha già un figlio sano, non ci pensi troppo”. Ho vissuto mesi come congelata, non riuscivo più a lavorare. Poi ho capito che per superare il dolore dovevo saperne di più, mi sono messa a studiare quello che succede all’estero e ho aperto un forum con un obiettivo: individuare e tradurre buone pratiche di assistenza. Non immaginavo che fosse un bisogno così radicato: hanno iniziato a scrivermi i genitori, ma anche i medici, gli infermieri, le ostetriche».
E ora? «L’Italia non è ancora in grado di fornire dati sulle cause di morte per oltre il 50% di questi bambini. Nell’ultimo rapporto Cedap (Certificato di assistenza al parto) del ministero della Salute solo nel 22,8% dei casi registrati è presente un’indicazione sui motivi del decesso e gli approfondimenti ancora oggi non sono obbligatori. Cambia molto da Regione a Regione: in Emilia Romagna c’è una buona rete diagnostica e tutti i casi vengono esaminati; in Lombardia, Toscana e Sicilia l’Istituto superiore di sanità ha avviato il primo sistema di sorveglianza sulla natimortalità, ma in altre Regioni capita ancora che le madri si sentano dire: “Succede quando si cerca un figlio fuori dal matrimonio”».
Nel campo dell’assistenza psicologica le cose stanno cambiando
«Quando abbiamo iniziato, su 600 punti nascita solo 3 avevano un sostegno specializzato alle famiglie. Ora sono 100» dice Claudia Ravaldi. «Io a Milano ho avuto un trattamento umano» racconta Francesca. «Dopo il parto mi hanno lasciato abbracciare la mia bambina e ho potuto fare quello che fa ogni mamma, guardarla, tenerla al caldo su di me». Francesca è stata “fortunata”. «Il comportamento degli operatori è determinante. Sento casi in cui alla mamma non si lascia vedere il bambino o al momento della comunicazione del decesso viene detto: “Signora, doveva venire prima” scaricando su di lei una colpa terribile» spiega la psicoterapeuta Carla Maria Xella. «E nel nostro cervello nelle situazioni di allarme le informazioni vengono codificate in modo diverso: parole e gesti sbagliati rischiano di fissare il trauma in maniera indelebile».
Quello perinatale è ancora oggi un lutto misconosciuto, spesso svilito
«La tua bambina è morta ma il tuo corpo che l’ha custodita non lo sa e la cerca, continua a produrre latte» racconta Francesca. «Stai male e tutti si aspettano che tu dimentichi e passi oltre, ti senti dire “Sono altri i dolori nella vita”, “Non pensarci più”». «Le madri devono essere seguite, perché il lutto va elaborato, non negato» conclude Xella. «Gli studi dimostrano che il rischio di depressione nelle donne che hanno avuto un lutto perinatale è del 30% nella gravidanza successiva contro il 12% delle altre donne».
Il libro da leggere
Se tu vai via porti il mio cuore con te di Silvia Gianatti (Leggereditore) è uscito a settembre. È la storia di Valeria che, a un mese dalla nascita del suo primo figlio, si sente dire: «Non c’è battito». Valeria è devastata, entra in crisi con il compagno e solo la scrittura riesce nel tempo a guarire la sua sofferenza. «Non è un romanzo autobiografico anche se il dolore della perdita l’abbiamo vissuto tutti» spiega l’autrice «ma era tanto tempo che volevo raccontare questa storia perché dieci anni fa la mia migliore amica ha perso una bambina all’ottavo mese. Eravamo sempre insieme e ho vissuto con lei ogni momento della gravidanza e poi del lutto. Ho dato voce al suo dolore, al senso di colpa, alla paura di aver sbagliato qualcosa e di non aver meritato di essere mamma di quel bambino».
Il film da vedere
Si chiama Don’t Talk About the Baby ed è stato lanciato il 15 ottobre su Vimeo. La regista Anne Zamudio e i produttori lo presentano come il primo documentario che esplora lo stigma culturale che circonda la natimortalità e l’infertilità. Nato grazie a un crowfunding a cui ha partecipato anche l’associazione Ciaolapo, ha l’intento di diffondere una cultura in cui perdere un figlio non è più trattata come un segreto”. Nel film madri ma anche coppie raccontano il senso di colpa, la vergogna, la sofferenza silenziosa che hanno vissuto quando hanno perso il loro bambino.