Alzi la mano chi non ha mai fatto una dieta, sperimentando l’impegno che ci vuole anche solo per perdere cinque chili. E se il muro da abbattere fosse dieci volte tanto? Significherebbe, come dice lo scrittore Luca Doninelli, che “si è passati dalla parte del nemico”, una soglia per cui la persona viene definita obesa.
Doninelli, 60 anni, è arrivato a pesare 140 chili e ne ha persi 50 in 27 mesi. Come ci sia riuscito, dopo tanti tentativi falliti, lo racconta in un libro, “La dieta sono io. Come ho perso 50 chili. Definitivamente” (La nave di Teseo), risultato degli appunti presi in un diario che ha tenuto per circa due anni. Ripercorriamo la sua impresa davanti a un caffè e a un piattino con 4 biscotti al cioccolato. Che nessuno toccherà.
A partire da quando aveva 28 anni lei ha fatto tante diete, senza successo. Arrivato a 140 ha pensato che, invece, fosse possibile farcela.
«Io non ci pensavo proprio, ma c’è stato un episodio illuminante che è servito a far cambiare il mio atteggiamento. È accaduto mentre frequentavo in ospedale un gruppo per la terapia dell’obesità, che nel mio caso non ha funzionato. Uno dei pazienti più giovani, Luciano, un giorno ricevette l’applauso di tutti per aver perso dall’inizio della cura 100 chili! Sono andato a complimentarmi con lui, ma come aveva fatto? Ci credessi o meno, mi ha detto che non era stato così difficile».
E lei ci ha creduto. Perché invece non funzionavano gli avvertimenti dei medici (rischia l’infarto) o di chi le diceva “Fai qualcosa, pensa alla famiglia e ai tuoi figli?”.
«I richiami al buon senso non servono a nulla in casi come il mio. Una volta oltrepassata la soglia di un peso proibitivo c’è una determinazione sorda a ogni campanello d’allarme. Si prova orrore per il proprio corpo, ci si sente in colpa, ma si continua a mangiare per placare l’angoscia. Il cibo è una dipendenza, ma il punto è anche un altro. L’obeso non ha più un rapporto con il suo corpo, evita gli specchi, vive in un mondo di solitudine e tristezza. Per tornare a essere un corpo fra i corpi, e non essere più ossessionato dalle dimensioni del mio, doveva risvegliarsi dentro di me quella parte sana che abbiamo tutti, anche chi ha perso il controllo e gratta il fondo delle pentole, intinge il pane nell’olio del tonno, mangia panini debordanti di salse».
E come ha fatto?
«Ci sono riuscito grazie a quelle che io chiamo “finestrelle”, delle specie di aperture tra il mondo dell’obeso e quello reale. È grazie a loro che si comincia a non ignorare più il problema. È come uscire un attimo da se stessi, e chiedersi: che uomo stanno vedendo gli altri? Può essere, come è successo a me, il bambino che salito sul tram dice alla mamma sottovoce, ma io lo sento lo stesso: “Guarda che brutta pancia ha quel signore”. Oppure la frase inaspettata di un’amica. Io ho sempre amato le donne e con alcune di loro ho stabilito un rapporto complice. Una di queste una sera, mentre era sulla porta, con due dita mi diede un colpetto sulla pancia e disse: “E qui, come la mettiamo?”. In quel momento mi sono visto con i suoi occhi e ho anche notato come la sua mano fosse così distante da me: ci separavano tutti i miei chili».
Che uomo vedevano i dietologi a cui si è rivolto?
«Dei dietologi potrei fare una casistica. Alcuni ti fanno sentire in colpa e in genere appartengono al genere maschile. L’obeso a loro non ispira compassione, uno è arrivato a dirmi: “Ma come ha fatto a ridursi in questo stato?”; altri, all’opposto, ti raccomandano di non sentirti in colpa per niente, che c’entra il metabolismo. Dai primi bisogna scappare a gambe levate, con i secondi va meglio perché l’obeso già si colpevolizza da solo, però non ci si può nascondere che delle responsabilità ci sono. Le ragioni dietro alle dipendenze sono profonde: ambizioni frustrate, amori falliti, nel mio caso un esaltare gli eccessi e quindi dare un valore positivo anche a un corpo ingombrante».
E allora chi è il dietologo ideale?
«È fondamentale che risulti simpatico. La mia, un’endocrinologa-dietologa, mi ha colpito per il suo modo gentile e la tendenza naturale a dare fiducia. Ha accolto il mio corpo obeso quando io stesso non lo accoglievo più. Questo ha sicuramente facilitato il percorso. Lei era ben disposta ad aiutarmi e io ero in quel momento più disposto a farmi aiutare, convinto che non dipendesse da un farmaco o da una dieta specifica la soluzione del problema: la dieta sono io, la buona riuscita del dimagrimento parte da me».
Cosa l’ha stupita di più mentre dimagriva?
«Può sembrare strano, ma dopo aver perso 20 chili mi sono guardato allo specchio e mi sono detto: come sei grasso! E poi succede una cosa bellissima. Il corpo non è più muto come prima e si riappropria di gesti naturali, come accavallare le gambe, fare l’amore nella posizione che preferisci, percorrere una salita e non accorgersi che la strada era in salita».
E ora che la dieta è finita? Lei si definisce un neo ex obeso.
«Lucio Dalla cantava “Ma l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale”. Un’impresa quasi impossibile, perché la vita è piena di trappole. Per quanto riguarda il peso mi sono dato delle regole e ho selezionato le trasgressioni: la focaccia genovese, il gelato alla nocciola e la brioche del bar preferito. Quando gusto una di queste lo segno sul calendario, mai fidarsi dell’“una volta ogni tanto”, che fa riprendere i chili senza accorgersi. E ogni giorno, per un minuto, ripenso a come ero prima e alla fatica che tutto questo comportava. Dopo due anni ho imparato che il corpo veramente bello è un corpo sano, educato a mangiar bene». E io auguro a Luca Doninelli di non dover più continuare a combattere, come scrive nel libro, una guerra “per il Resto della Vita”. Con il tempo, cambiando alimentazione, certe tentazioni non sono più tali. E anche la mente, di cui Doninelli non si fida perché conserva la memoria di un passato così pesante, non è più una nemica.