Adoro le Olimpiadi. Anche queste: blindate, senza pubblico, notturne, minacciate dal tifone. Più di qualsiasi altro evento sportivo globale, ci ricordano cosa ci vuole per fare un campione. Nello sport ma non solo lì.
Le Olimpiadi sono, da sempre, la rivincita della provincia, della periferia. Luoghi che offrono meno possibilità di scelta ma più carburante all’ostinazione, alla concentrazione. Mesagne dista pochi chilometri dal mio paese natale, dove taekwondo neppure lo sappiamo nominare. Eppure da qui arriva il nostro primo oro olimpico a Tokyo, e da qui ne arrivò un altro, 9 anni fa, oltre a 5 titoli mondiali, 19 europei e via così. Non è un caso, ma la bellissima storia del ritorno a casa di un pugliese emigrato in Germania, vero guru di questa arte marziale, che in provincia ha costruito quella fucina di sudori e fatica che è una palestra. E che ancora oggi ci ricorda che per fare un campione ci vuole una comunità.
Le Olimpiadi sono la rivincita dei nonni, destinatari dei ringraziamenti e delle dediche di gran parte dei nostri atleti in gara. I nonni rappresentano un modo di tifare difficilmente replicabile da un genitore o da un partner. Il nonno, con i suoi incitamenti, sa infondere fiducia senza ansia sul risultato. Non cerca il riscatto nei nipoti, si prende il lusso di adorarli indipendentemente da ciò che adorano loro. Ed è solo dal pulpito di quell’amore incondizionato che le urla sugli spalti, fin da quando si è piccolini, non suonano come una minaccia ma come un’iniezione di fiducia. Per fare un campione ci vuole un tifo così, di livello avanzato.
Le Olimpiadi sono la rivincita dei maturi: c’è sempre, a ogni Gioco, un trenta-quarantenne che ci fa sognare, dimostrandoci che la vera età dell’oro è quella in cui le aspettative nei nostri confronti si sono affievolite, i riflettori abbassati. E noi siamo davvero liberi di rischiare. Perché per fare un campione ci vogliono la potenza e l’incoscienza della giovinezza, ma anche la leggerezza che solo la maturità sa regalare.
Le Olimpiadi sono anche la rivincita della sconfitta. Il fallimento in una gara in cui si è campioni offre materiale da letteratura. Diventa il capitolo di un’epopea in costruzione, che i cronisti si affrettano a immortalare, attingendo a ogni sorta di topos letterario. Così è stato per la giovanissima Benedetta Pilato, favorita nei 100 rana, ma poi squalificata. Divenendo oggetto di ogni sorta di speculazione su cosa significhi fallire a 16 anni, in quella terra oscura che è l’adolescenza. Come se una campionessa come lei già non lo sapesse. Come se per fare un campione, fin da bambini, non ci volesse l’assidua, quotidiana frequentazione con la sconfitta.