A quest’ora di 73 anni fa, morivo di freddo e di fame in una baracca di Birkenau, uno dei tre campi di sterminio di Auschwitz. E con me mia sorella Miriam. Tra il 1944 e il 1945, abbiamo guardato in faccia la morte quasi ogni giorno e tutte le volte mi sono ripetuta che saremmo sopravvissute. Amavo le bombe che fischiavano sopra la mia testa perché sentirle significava che sarebbero venuti a liberarci. Io e Miriam avevamo dieci anni ed eravamo le gemelle del Dr Josef Mengele, il cosiddetto “angelo della morte” che durante l’Olocausto fece esperimenti genetici su oltre 1.500 coppie di gemelli deportati al campo. Di queste, solo 100 hanno raggiunto, vive, il giorno della liberazione. Dopo una manciata di minuti dall’arrivo ad Auschwitz, ci hanno strappate da nostra madre, nostro padre e dalle nostre sorelle. Da quel giorno non li abbiamo più rivisti.
La violenza che ho subito e gli orrori ai quali ho assistito nei dieci mesi successivi, hanno cancellato per sempre la mia infanzia. Al campo mi ero assuefatta all’atrocità e, con la stessa naturalezza con cui respiravo, provavo terrore. Il Dr Mengele iniettò nel mio corpo sostanze misteriose, che nessuno riuscì mai a comprendere fino in fondo e che ancora oggi mi provocano problemi di salute. Al contrario, il veleno che mi ha trasfuso nell’anima lo riconobbi presto: la forza distruttiva dell’odio e della paura ha marchiato a fuoco quasi tutta la mia vita. Per molto tempo dopo la liberazione, rimasta orfana e senza casa, fui perseguitata da feroci incubi notturni e ovunque trovassi rifugio mi sentivo indesiderata. Il mondo scoprì la portata delle crudeltà dell’Olocausto dopo decenni di silenzio, durante i quali venni offesa ed emarginata perché ebrea. Un’ingiustizia che alimentò la mia rabbia e sete di vendetta.
Per quasi cinquanta anni ho lottato per ritrovare la voglia di vivere che avevo da bambina,
eppure mi sentivo sempre più fragile. Poco dopo la scomparsa di mia sorella Miriam, conobbi il Dottor Münch, un medico nazista pentito. Inaspettatamente accettò di firmare una dichiarazione sull’esistenza delle camere a gas e i crimini che vi furono commessi. La sua fu una testimonianza fondamentale sia per mettere a tacere chi ancora sminuiva le atrocità dell’Olocausto sia per me. La gratitudine che provai per lui riuscì pian piano a cancellare il risentimento e lasciò spazio al perdono. Nel 1995, sulla rampa che portava ai forni crematori, rivolsi pubblicamente la mia assoluzione a Münch, ma anche a ogni nazista che aveva partecipato al massacro della mia famiglia e di milioni di ebrei. In cambio chiedevo di uscire allo scoperto ammettendo i loro reati. Speravo così di ottenere giustizia per le vittime ma anche informazioni sui virus e batteri che ci erano stati iniettati dentro di noi. Münch ne rimase commosso, ma la cosa più sconvolgente fu l’effetto che quelle parole fecero a me: da vittima indifesa iniziai a sentirmi potente.
Con la stessa forza con cui la rabbia mi aveva reclusa nel passato,
sentivo che il perdono mi spingeva a riscoprire la vita. Mi appassionai al mio presente e a tutte le possibilità che avevo di fare qualcosa di utile nel futuro. Capii che rinunciando al rancore avevo trovato un modo nuovo di relazionarmi con le mie ferite. Anziché lasciare che fossero loro a dettare le regole decisi di accettare questo potere e scelsi di provare pace anziché odio. Nel tempo trovai la forza di perdonare anche Mengele. Per farlo, a me sono serviti cinquanta anni e la certezza di non sentirmi più in pericolo. È solo nel momento in cui una persona percepisce di essere al sicuro che inizia a cercare una strada per uscire dal trauma. Ciò che paralizza un processo di guarigione è continuare a sentirsi vittima, un atteggiamento distruttivo comune a molte persone colpite da una tragedia. So di non poter fare niente per cambiare il mio passato, ma scoprire il perdono mi ha restituito la più grande dote che mi aveva trasmesso mia madre: l’abilità di essere felice, nonostante tutto.
Molti pensano che con questi atti di remissione io abbia negato le atrocità dell’Olocausto
Ma come potrei? Il mio concetto di perdono non rimuove i ricordi, ne elimina il peso. Non equivale a condonare i delitti, perché la giustizia riguarda i colpevoli e deve fare il suo corso; il perdono serve a noi, per liberarci dalle catene che ci legano a loro. Negli ultimi vent’anni, da quando ho imparato a perdonare, dormo e respiro meglio ma la cosa più importante è che riesco a esaminare il passato, ricordarlo in ogni dettaglio e parlarne senza esserne sopraffatta. È una distanza essenziale per non sentirmi più vittima e riacquistare forza emotiva. Benché sia anziana e fisicamente provata, ho energia per portare avanti ogni iniziativa utile a diffondere nel mondo la necessità di tenere viva la memoria. Che non deve essere strumentalizzata per fomentare il risentimento verso i responsabili dell’Olocausto, ma al contrario, per impedire che l’odio alimenti altri abusi, altre guerre, altri genocidi. E a chi è rimasto ferito dalle atrocità che ancora oggi scuotono il mondo, bisognerebbe insegnare il perdono. Come arma di autoguarigione e seme della pace. Per noi stessi e per la nostra civiltà.
Cinque libri e un docu-film per ricordare
“Ad Auschwitz ho imparato il perdono” di Eva Mozes Kor (Sperling & Kupfer) La storia di una sopravvissuta che ha trovato il coraggio di perdonare. Il 5 aprile negli Stati Uniti esce “Eva a-7063”, il docu-film della regista Mika Brown che racconta la storia di Eva Mozes Kor.
“La guerra di Catherine” di Julia Billet – Claire Fauvel (Mondadori) Come parlare dell’Olocausto ai ragazzi? Le due autrici ci provano con una graphic novel che racconta la storia di Rachel, ragazzina ebrea nella Francia del 1941. Costretta a lasciare la scuola e gli amici e cambiare nome, rincorre la bellezza con la macchina fotografica.
“L’insegnante” di Michael Ben-Naftali (Mondadori) Michael Ben- Naftali, ripercorrendo la vita della sua insegnante Elsa Weiss, fa luce su una storia controversa della Shoa: il treno di Rudolf Kastner, che avrebbe dovuto portare in salvo 1.600 ebrei. Ma che invece è stato dirottato a Bergen-Belsen.
“Gli aquiloni” di Romain Gary (Neri Pozza) In Normandia, mentre Hitler prende il potere, il giovane Ludo incontra Lila, appartenente all’aristocrazia polacca. Dopo l’invasione della Polonia però Lila e la sua famiglia scompaiono e Ludo entra nella resistenza per salvare il suo villaggio dai nazisti.
“6 campi” di Zdenka Fantlová (tre60) Anche in questo libro c’è la storia di una sopravvissuta ai campi di concentramento. Quando i tedeschi occupano la Boemia-Moravia, nel marzo 1939, Zdenka ha 17 anni. Nel 1942 viene deportata a Terezin con la famiglia. Poi ad Auschwitz e in altri campi fino al 1945.