Che ci sia un problema è più che evidente. L’ultima volta ne avevamo parlato dopo il caso dello stupro di Firenze, quando i giornali italiani aveva riportato per giorni notizie false e ricostruzioni faziose. Ora è la volta di Pamela Mastropietro, la cui vicenda è ormai nota a tutti: il suo corpo, smembrato e senza vestiti, è stato ritrovato in due valigie lo scorso 31 gennaio nelle campagne nei pressi di Pollenza, vicino Macerata. Dall’ottobre del 2017 la diciottenne, originaria di Roma, era ospite della comunità di recupero per tossicodipendenti Pars di Corridonia, sempre in provincia di Macerata, centro da cui si era allontanata volontariamente il 29 gennaio.
La ragazza non aveva con sé nè documenti nè telefono, tutte cose che di regola non sono ammesse nelle comunità di recupero, soprattutto nei primi mesi di permanenza. La stessa sera del ritrovamento del corpo, identificato dalla madre Alessandra Verni, è stato fermato il ventinovenne nigeriano Innocent Oseghale con l’accusa di vilipendio e occultamento di cadavere. Lo scorso 6 febbraio, un’altra persona è stata fermata con l’accusa di concorso in spaccio di droga, come riporta il Corriere della Sera.
Un corpo, quello di Pamela Mastropietro, “usato” anche dopo la sua morte
Ma nella storia di Pamela Mastropietro il vilipendio non si è fermato con la sua brutale morte. Il suo corpo, infatti, è stato oggetto di ulteriore profanazione, usato suo malgrado per giustificare la più bieca xenofobia, miccia perfetta per riaccendere quell’odio razziale cui molti italiani sembrano propensi negli ultimi anni. Sappiamo come sono andate le cose: intorno alle 11 di mattina di sabato 3 febbraio, il 28enne neofascista Luca Traini, ex candidato della Lega Nord, sale sulla sua Alfa 147 e spara a vista a tutte le persone nere che incontra, fermandosi nelle zone di Macerata che sa essere frequentate dai richiedenti asilo.
In tutto spara una trentina di colpi, terrorizzando la città. Ferisce sei persone, di cui due in modo grave: si tratta di Wilson Kofi, 20 anni; Omar Fadera, 23anni; Jennifer Otiotio e Gideon Azeke, entrambi 25 anni; Mahamadou Toure, 28 anni e Festus Omagbon, 32 anni. Da quel momento in poi, giornali e televisioni iniziano a fare collegamenti con la morte di Pamela Mastropietro, avvenuta solo pochi giorni prima. Tra sabato e domenica, infatti, Traini viene interrogato dal comandante provinciale dei carabinieri di Macerata Michele Roberti e dal capo del reparto operativo Walter Fava. Stralci di quell’interrogatorio appaiono quindi su Repubblica e Corriere.
Secondo la ricostruzione dei due principali quotidiani italiani, riportata poi anche da altri giornali, Traini avrebbe deciso di «compiere una strage» dopo aver ascoltato le ultime notizie in radio riguardanti l’omicidio della ragazza romana. L’arresto di Oseghale, in particolare, sarebbe stato il punto di non ritorno per il neofascista, che voleva «ucciderli tutti» e vendicare così la morte della ragazza. Per alcune ore è anche circolata la notizia – rivelatasi poi falsa – che quella di Traini fosse una vendetta personale e non un attentato di matrice ideologica: alcuni esponenti della Lega Nord avevano infatti insinuato una relazione tra i due, cosa mai confermata dagli inquirenti.
Un racconto mediatico fuorviante e surreale, che rafforza i peggiori stereotipi
Sia i giornali che le televisioni hanno però calcato la mano su questo presupposto collegamento, di fatto avallando il trattamento del corpo di Pamela Mastropietro come un oggetto senza valore di cui tutti possono appropriarsi per i propri scopi. Come riportato da Repubblica, Traini si sarebbe così espresso: «Questa mattina ho capito che era venuta l’ora di vendicare la morte di Pamela Mastropietro, e che andava vendicata colpendo i neri. Il mio è un messaggio. L’ho voluto lanciare perché bisogna contrastare l’eccessiva presenza di immigrati in Italia».
In un periodo di cui parliamo moltissimo di violenza contro le donne, abusi e molestie, e lo facciamo consoni di quanto sia una discussione ampia e sfaccettata, la vicenda di Pamela ci riporta alla triste realtà di un Paese che non sa come neanche raccontare adeguatamente episodi come questo, figuriamoci affrontarli. L’apice si è poi raggiunto con un articolo firmato da Fabrizio Caccia e apparso sul Corriere della Sera. Nel pezzo, che è stato cancellato dal sito dal giornale a causa delle moltissime critiche ricevute, Caccia riporta la notizia dell’uomo di 45 anni che ha incontrato Pamela Mastropietro prima che lei venisse uccisa, l’ha pagata per un rapporto sessuale e l’ha quindi lasciata in stazione da sola.
Non si tratta di un’intervista, perché l’uomo ha rilasciato un’unica dichiarazione («Credete non ci pensi a Pamela?») ai giornalisti, ma di un articolo romanzato che vuole ricostruire le dinamiche psicologiche dei “personaggi” di questa storia.
La fa descrivendoci un uomo mite «con la barba hipster» e «i sandali da francescano anche in inverno», affranto dalla morte di quella ragazza «che avrebbe potuto salvare» se solo avesse saputo a che destino sarebbe andata incontro di lì a poco, mentre Pamela è «schiava della sua bellezza». È fin troppo facile riconoscere le lacune di questo racconto, che non fa che rafforzare stereotipi dannosi e sessisti, perché si dimentica convenientemente di includere le responsabilità dell’uomo, che ha pur sempre scelto di avere un rapporto sessuale a pagamento con una persona che, e questo è lecito supporlo, non era nel pieno delle sue facoltà. Avrebbe potuto riaccompagnarla in comunità o nella più vicina stazione dei Carabinieri, ma non l’ha fatto.
Perché è importante il modo in cui raccontiamo storie come questa
Ha scritto Alessandra Pigliaru su Il Manifesto che a chi ha letto quell’articolo «[è rimasta] la strana sensazione di un episodio surreale che alla crudezza dei fatti sostituisce l’immagine edulcorata di un malinconico personaggio pseudo-letterario ora pentito con il cuore gonfio di malumore». Nessuno vuole imputare la morte di Pamela Mastropietro a quest’uomo, ma è importante riconoscere il racconto falsato che è stato fatto dell’intera vicenda, un racconto che non ha tenuto conto della storia personale della ragazza né ha rispettato il lutto dei suoi familiari, costretti ad assistere impotenti all’appropriazione della morte della loro cara prima da parte di un estremista attentatore e poi dai media.
In un Paese in cui i femminicidi non accennano a diminuire – l’ultimo caso, a Milano, è quello della diciannovenne Jessica Faoro, uccisa a coltellate nella notte tra martedì 6 e mercoledì 7 febbraio dall’uomo che la ospitava, Alessandro Garlaschi – e mentre le vittime sono sempre più giovani, diventa fondamentale il modo in cui le loro storie vengono raccontate, i casi analizzati, i diversi schemi di comportamento riconosciuti. La discussione che abbiamo avviato negli ultimi mesi è un punto di partenza importante per restituire i corpi di queste donne a loro stesse, e sfidiamo chiunque a non cogliere la necessità di un cambiamento dell’attuale stato delle cose.