Per passione, per testardaggine, ma non solo. «Da medico, non sono mai riuscita ad accettare che il cancro uccidesse un così grande numero di persone». Patrizia Paterlini Bréchot, oncologa, docente di Biologia cellulare e molecolare all’universtità Descartes di Parigi e direttore di un’équipe dell’Inserm (Institut national de la santé et de la recherche medicale), non ricorda una morte che le sia stata indifferente: «Ci sono sguardi di pazienti che ancora oggi non riesco a togliermi dalla testa».
È la ragione per cui, quasi 30 anni fa, ha deciso di diventare ricercatrice. Da allora questa emiliana adottata dalla Francia ha speso tutte le sue energie, la sua intelligenza e anche molto del denaro di famiglia nella guerra contro il cancro. Con un obiettivo: «Arrivare alla fine dell’esistenza e guardarmi allo specchio sapendo che sono riuscita a salvare tante vite». Obiettivo centrato, si direbbe. È frutto del suo lavoro il test Iset (Isolamento per dimensione delle cellule tumorali): una tecnica in grado di diagnosticare un tumore anche 4 o 5 anni prima che si manifesti e quindi di abbattere in modo significativo la mortalità.
Cos’è l’Iset? «Un esame del sangue che riesce a individuare la presenza di cellule neoplastiche circolanti nell’organismo molto prima che il tumore raggiunga una dimensione tale da essere “visibile” con Pet, Tac e risonanza magnetica. Nel caso del cancro al seno, gli studi epidemiologici hanno dimostrato che l’invasione tumorale ha inizio 5-6 anni prima della diagnosi. Un tempo che, nelle cure, può fare la differenza. Purtroppo il test ha ancora un limite: non è in grado di individuare l’organo da cui derivano le cellule malate. Per ora, almeno, perché la ricerca è già in fase avanzata».
Ma non esistono già i “marker” per scoprire il cancro attraverso un prelievo di sangue? «I marker sono molecole che possono essere associate a una neoplasia o alla sua evoluzione, ma che non danno la certezza della diagnosi. Invece le cellule sono l’unità biologica del tumore: isolarne una significa trovare una parte della neoplasia senza il rischio di incorrere in falsi negativi e falsi positivi. Certo, le cellule tumorali circolanti sono rare: una per millilitro, mescolata a 5 miliardi di globuli rossi e a 10 milioni di globuli bianchi. Ma siccome sono più grandi delle altre, per individuarle abbiamo messo a punto un sistema basato sulle dimensioni, a cui segue la diagnosi citopatologica. In pratica, una sorta di pap-test applicato al sangue. In medicina quello è l’esame che ha salvato più vite: da quando è stato introdotto, le morti per tumore al collo dell’utero sono calate drasticamente».
E il suo test che sicurezza garantisce? «Quella di riuscire a individuare una cellula tumorale in 10 millilitri di sangue. Una sicurezza validata da altri scienziati nel mondo e da 42 studi indipendenti su oltre 2.000 pazienti con tumore».
Nella ricerca che usa l’Iset sono stati coinvolti dei malati? «Certo. Fin qui 245, di cui 168 affetti da broncopatia cronica ostruttiva: grandi fumatori a forte rischio di sviluppare un cancro del polmone. In 5 di loro il test ha rilevato cellule tumorali. I noduli sono poi comparsi in un tempo compreso fra 1 e 4 anni: sono stati rimossi chirurgicamente e, a 2 anni dall’intervento, nessuno ha sviluppato recidive. Se si pensa che finora l’87% dei pazienti è morto a 5 anni dalla diagnosi, si può capire quanto forte sia la speranza. In un tumore così letale la speranza di sopravvivenza è legata alla diagnosi precoce, quando la neoplasia si trova allo stadio 1, quello di tutti e 5 i pazienti sottoposti all’Iset. Dopo la divulgazione di questi dati, in Francia il test sta per essere utilizzato su persone già colpite da neoplasia, in modo da individuare con largo anticipo eventuali recidive e intervenire prima che si manifestino. Ma ci sono altri Paesi interessati, compresa l’Italia».
Dall’Italia lei se n’è andata quasi 30 anni fa e non è più tornata. «Ma sono fiera di essere italiana: nella classifiche della produzione scientifica, siamo i ricercatori che pubblicano di più rispetto ai fondi che hanno. Siamo dunque tra i più efficaci al mondo. Io sono partita per la Francia perché volevo fare uno stage di biologia molecolare e nel 1988, in Europa, Parigi era il posto migliore, in particolare il gruppo del professor Christian Bréchot».
Che poi è diventato suo marito. «È successo che il professore si è innamorato della stagista e la stagista si è innamorata del professore… Contro ogni intenzione, perché volevo dedicare tutta me stessa alla ricerca, mi sono sposata e ho avuto 2 figli, che ormai hanno 25 e 23 anni e sono indipendenti. In passato, però, non tutto è stato semplice: da italiana, l’attaccamento alla famiglia era più forte di qualsiasi cosa. Per quello che mi riguarda, l’equilibrio casa-lavoro è più difficile di qualsiasi progetto scientifico. Una sfida senza regole che mette quotidianamente alla prova».
Mi pare che comunque se la sia cavata. «Pare anche me. In fondo, il fatto di avere una professione che coincide con una passione è una fonte di stabilità e di sicurezza. Nei confronti della vita, dei figli, del marito, del mondo».
Lei lavora con suo marito? «Non più. Sono stata per lungo tempo nella sua unità di ricerca ma, quando lui è diventato direttore dell’Inserm, ho fatto un concorso per avere un mio gruppo. L’ho vinto e sono andata per la mia strada».
Nella sua lotta contro il cancro ha usato anche il patrimonio familiare. «Sì, ho costituito una società per sviluppare l’Iset e metterlo a disposizione dei medici. Se avessi aspettato i finanziamenti pubblici, il test non sarebbe ancora arrivato ai pazienti. I brevetti, però, sono di proprietà degli istituti di ricerca. Se nella mia carriera avessi pensato al denaro, a guadagnare dalle scoperte fatte, non dirigerei un laboratorio né insegnerei: farei altro».
Oggi vive tutto questo come una vittoria personale? «No, il progetto è soprattutto una vittoria della ricerca. Nella quale, in particolare, mi ha seguita una collega italiana, Giovanna Vona, che è morta a 35 anni per un tumore al colon. Eroica e magnifica fino alla fine, Giovanna non ha mai voluto smettere, continuando a lavorare con l’apparecchio per iniettare i farmaci nascosto sotto il camice. Per me non se n’è mai andata: questa battaglia per migliorare la vita dei malati di cancro la combattiamo ancora insieme».