Oscar Pistorius, era stato definito “Un eroe caduto” dalla giudice Thokozile Masipa nella sentenza di condanna. Le straordinarie prestazioni nello sport nonostante la disabilità hanno fatto di lui un modello e forse un eroe. Ma quando è stata stabilità la verità dei maltrattamenti fino all’omicidio della fidanzata, quell’immagine è drammaticamente crollata. Dopo la condanna a 13 anni di reclusione, di cui ha scontato circa la metà, ora può chiedere la semilibertà.
I successi sportivi
Oscar Pistorius è nato nel 1986 con una gravissima malformazione che ha reso necessaria l’amputazione delle gambe a pochi mesi di vita. Nonostante ciò, sin da piccolo si dedica allo sport e in particolar modo all’atletica leggera. Utilizzando due vecchie pale d’elicottero, si ricava da solo le prime protesi per correre con cui partecipa alle prime gare. Successivamente gareggia ad alcune edizioni dei campionati paraolimpici (le olimpiadi per i diversamente abili) ma nel 2007 riesce a competere alle prime competizioni internazionali con i normodotati, fino a conquistarsi un posto alle Olimpiadi di Londra nel 2012: è la prima volta che un atleta amputato riesce a partecipare ai Giochi. La sua storia, il suo personale riscatto nonostante le difficoltà, commuove e appassiona tutto il mondo.
L’omicidio
L’anno dopo Londra, il 2013, tutto invece va in frantumi. Il giorno di San Valentino, Pistorius uccide con quattro colpi di pistola Reeva Steenkamp, la bellissima modella e assistente legale di 29 anni con cui aveva una relazione. Una “splendida coppia” che in realtà è stata insieme poco meno di 4 mesi. La madre di Reeva ha rivelato che la ragazza era pronta a lasciarlo la notte in cui avviene l’omicidio. Nel corso di una lite furibonda testimoniata anche dai vicini, la ragazza si chiude in bagno ma viene raggiunta comunque dalla furia armata di Pistorius.
Pistorius confessa l’omicidio quando la polizia arriva in casa, chiamata da un vicino che ha sentito gli spari. Al processo l’accusa sostiene però che l’atleta abbia sparato a Reeva dopo una lite, mentre per la difesa si è trattato di un incidente: al buio, Pistorius avrebbe scambiato la ragazza per un ladro e in preda all’ansia, avrebbe aperto il fuoco. Quella notte, inoltre, Pistorius sarebbe stato particolarmente indifeso trovandosi senza protesi e quindi senza la possibilità di muoversi agevolmente ed eventualmente fuggire. Per dimostrarlo, si è anche presentato in aula senza gambe artificiali, per far capire ai giudici come si muove senza le protesi. Nel corso del processo il grande atleta viene descritto dalle ex fidanzate, somiglianti a Reeva in modo inquietante, come un uomo collerico e fissato con le armi.
La condanna
Il 12 settembre 2014 la giuria riconosce la tesi dell’omicidio involontario e condanna Pistorius a sei anni di carcere. L’accusa presenta ricorso e si apre il processo d’appello che si conclude nel 2017 con una condanna definitiva a 13 anni e 5 mesi di carcere. La Corte suprema d’appello del Sudafrica ha più che raddoppiato la pena precedente, definendola “scandalosamente lieve”. Tra le argomentazioni che l’appello ha accolto, c’è anche il fatto che Pistorius non ha mai dato una risposta convincente sul motivo dell’omicidio e che, nonostante la disabilità, fosse comunque un uomo forte, allenato non così vulnerabile.
Un processo che ha fatto discutere
Il processo si è svolto sotto i riflettori e ha sollevato grandi polemiche tra chi riteneva gli si dovessero delle scusanti tali da giustificare una pena più mite e chi ha contestato la prima condanna così clemente solo perché bianco e famoso. Le ferite dell’apartheid, la rigida segregazione razzista fra bianchi e neri che ha segnato il Paese fino al 1994, hanno lasciato il segno.
La libertà vigilata
A quasi nove anni dall’omicidio, Oscar Pistorius, 34 anni, potrebbe ottenere la libertà vigilata avendo scontato metà dei tredici anni di pena. Da tempo i difensori chiedevano un trasferimento dal carcere nel timore che, a causa della disabilità, subisse violenza da parte degli altri detenuti. È invece diventato leader di un gruppo di preghiera. La semilibertà (e in parte il ritorno allo sport) è però subordinata a una serie di colloqui risarcitori con i genitori di Reeva a cui durante i processi aveva rivolto solo sguardi sfuggenti. La madre della ragazza, June, è stata una sua accusatrice. E tra i motivi dell’aggravio della sua pena c’era anche il dubbio che dietro l’espressione sempre impassibile, l’ex atleta non avesse mai provato rimorso per l’omicidio.