Chi ha un familiare anziano da accudire sa cosa significhi prendersene cura, sia sul fronte delle visite e degli esami che possono servire, sia in caso occorra un’assistenza continua. Spesso manca un servizio che aiuti i caregiver, così come risulta difficile avere assistenza medica continua, anche stando a casa e potendo contare, magari, su una badante.
Gli ospedali di comunità
Ma dal Pnrr dovrebbero arrivare fondi per realizzare i cosiddetti ospedali di comunità, pensati per “rendere l’assistenza sanitaria il più possibile personalizzata sulla base delle esigenze del paziente e delle loro famiglie” e dedicati “ai pazienti con patologie lievi o recidive croniche situati uniformemente su tutto il territorio nazionale”, come spiega il ministero della Salute. Noi abbiamo chiesto in cosa consisteranno, quanti ce ne saranno e come funzioneranno a Silvestro Scotti segretario generale della Federazione italiana medici di medicina generale (Fimmg).
Cosa sono gli ospedali di comunità?
Come spiegato dal ministero della Salute, gli ospedali di comunità sono “strutture sanitarie per i pazienti che necessitano di interventi clinici a bassa intensità e di breve durata”: dunque una via di mezzo tra un ospedale a cui rivolgersi soprattutto in caso di emergenze e interventi specialistici, e una casa di riposo o un hospice, dove viene erogata un’assistenza soprattutto infermieristica, per patologie croniche o recidive, lievi.
«Gli ospedali di comunità sono già presenti in alcune regioni, magari con altri nomi. All’interno della categoria, però, ci sono differenze: per esempio, ci sono gli hospice per soggetti lungodegenti che necessitano di un’assistenza continua, ma non possono averla a casa, magari perché non hanno familiari o badanti che possano occuparsene, oppure ci sono le Rsa, le residenze sanitarie assistenziali – spiega Scotti – Potremmo definire gli ospedali di comunità come dei cuscinetti di compensazione tra il territorio e l’ospedale: possono permettere a soggetti con patologie croniche, dopo una fase di scompenso, di tenere sotto controllo la situazione, in raccordo con il medico di fiducia, che può effettuare visite periodiche».
Che servizi offrono gli ospedali di comunità?
Il raccordo con il territorio, infatti, passa proprio dal medico curante: «Il suo è un compito importante ed è previsto nella gestione degli ospedali di comunità: per esempio, come accade già in qualche Rsa, la gestione è prevalentemente infermieristica e il medico curante passa per la gestione dei farmaci, il controllo dei pazienti, rimanendo reperibile in caso di necessità urgente, ma non tale da dover procedere con un trasferimento in un ospedale vero e proprio» chiarisce Scotti.
«Gli ospedali di comunità servirebbero come una camera di compensazione, soprattutto di fronte ai dati che mostrano un costante invecchiamento della popolazione: in caso di paziente fragile e cronico che non può contare sull’assistenza sociale, di un familiare o di un altro caregiver, ci si potrebbe avvalere di queste strutture. Oppure, dopo una degenza in ospedale per una qualche criticità, quando magari occorre proseguire le terapie nel tempo, oppure occorre variarle dopo un periodo, ecco che questi ospedali di comunità possono permettere di continuare le cure, effettuando anche all’interno controlli periodici, esami e test diagnostici, per capire se il percorso terapeutico sta funzionando» chiarisce l’esperto.
Quanti ospedali di comunità ci saranno e dove?
Il piano di realizzazione, in base a quanto si legge sul sito del ministero della Salute, prevede la realizzazione di 381 strutture in tutta Italia, che possono sembrare un numero elevato, ma forse così alto non è: «Questa è una delle criticità. Se pensiamo che l’Italia ha un’estensione di 330 mila km quadrati, significa 1 ospedale di comunità ogni 1.000 km quadrati: sono pochi. È vero che si aggiungerebbero ad altre strutture già esistenti (soprattutto in certe regioni), ma il loro vantaggio e utilità rischiano di svanire se sono troppo diradati sul territorio. Se poi pensiamo che gli ospiti sono spesso anziani, per loro ritrovarsi molto lontani da casa e dai familiari può essere molto negativo e può incidere anche sul processo di guarigione, nel quale conta anche la componente psicologica. Senza contare che, se si allontana dal proprio territorio, diventa difficile che l’assistenza sia fornita dal medico di fiducia» spiega il segretario generale della Fimmg.
Un altro aspetto da chiarire, infatti, riguarda il personale all’interno degli ospedali di comunità.
Quali e quanti medici lavorano?
«Noi speriamo che il punto di riferimento all’interno degli ospedali di comunità sia il medico curante, come avviene ad esempio in Piemonte, grazie a un accordo regionale. Ma essendo la sanità di competenza regionale, appunto, può accadere che ci si affidi ad altro personale sanitario esterno al circuito della medicina di famiglia, come in Lombardia» spiega Scotti. Con la pandemia, poi, è emersa la mancanza di medici in numero sufficiente, soprattutto tra quelli “di base”: «Può diventare complicato reperirne in numero sufficiente: come medici di famiglia tra i nostri compiti c’è già l’attività domiciliare, che potrebbe essere non a casa del paziente ma nell’ospedale di comunità. Però se questo si trova a 40 o 50 km di distanza, è chiaro che non è possibile effettuare visite periodiche ricorrenti, che si aggiungerebbero alla normale attività in ambulatorio e alle altre visite domiciliari ad altri pazienti», sottolinea Scotti. «Per questo io preferirei che queste strutture fossero limitrofe a ospedali già esistenti, che potrebbero contare anche sul personale medico specialistico».
Chi paga gli ospedali di comunità?
L’investimento del Pnrr è di 1 miliardo di euro, per realizzare le strutture entro il 2026. Ma come funzionerebbero, una volta costruite? «Questa è un’altra criticità: il progetto del Pnrr è in conto capitale e non in conto corrente, significa che i soldi stanziati servono per realizzarle, non per farle funzionare, né per sostenere i costi del personale o di manutenzione successiva – spiega l’esperto – Dopo il 2026 non ci saranno altri fondi europei, quindi si pone il problema perché il costo ricadrà sul Servizio sanitario nazionale. Considerando che già oggi la spesa sanitaria è pari al 6,1% del Pil, cioè la quota più bassa in Europa, il rischio è di avere delle cattedrali nel deserto, difficili da mantenere. Oppure di doversi affidare a una gestione privata che prevede una contribuzione da parte del cittadino». Insomma, una retta, come avviene già oggi e con cifre difficilmente sostenibili per molti cittadini.
Quanto alla localizzazione, «pochi anni fa, partecipando a un convegno sugli investimenti in questo tipo di strutture, l’interesse da parte dei costruttori si fermava geograficamente al Lazio: non era stata manifestata la volontà di investire al sud» conclude Scotti.