Colonia Marina Vittorio Emanuele III». Lo stemma sabaudo con la croce bianca in campo rosso troneggia sul portone verde. Ferma, sul lungomare di Ostia, guardo e immagino frotte di bambini uscire da lì dentro, vestiti da figli della Lupa. Li vedo spogliarsi, buttare via le loro piccole camicie nere e in mutande e canottiera, sfuggendo al rigido controllo delle suore e alle regole imposte dal regime, sciamare sulla spiaggia, dribblando ombrelloni, sdraio, venditori di cocco, giocatori di pallone tatuati, e tuffarsi in mare, finalmente liberi.
Mentre fantastico questa sovrapposizione immaginaria di passato e presente, sotto il sole a picco di una mattina di agosto, assaporo una fetta di cocomero. Me l’ha venduta una ragazza che divide il banco di frutta lì davanti con un indiano di mezz’età. «Com’è, dolce?» le chiedo. «Troppo. Lo voi assaggia’? Io me ne so’ appena sparata ’na fetta…» mi risponde ridendo. Ha sulle palpebre un ombretto che è un arcobaleno, le ciglia finte, una camicia di pizzo bianco, trasparente, da cui emerge un reggiseno nero. «È bono, è bono» le fa eco l’indiano. Metto da parte la diffidenza e lo compro, senza neanche assaggiarlo. Mi fido, perché mi sta simpatica e perché una che vende la frutta alle 11 della mattina vestita come per andare in discoteca merita fiducia. Rischio. Rischio che faccia schifo, che sia una sòla, come dicono a Roma. Invece è dolcissimo.
Questa è Ostia. Una bella ragazza che si è fatta una brutta fama, ma che ancora ti può sorprendere. Passato e presente si incrociano a ogni angolo, in questa città fuori città. Degrado ed eleganza seduti alla stessa tavola, gomito a gomito, come due gemelle siamesi, una bella e una brutta, costrette a convivere, ma indifferenti l’una all’altra. «La periferia della periferia» la chiamava Pier Paolo Pasolini, che l’amava, forse, proprio per le sue contraddizioni. La ex colonia marina Vittorio Emanuele III, un tempo la più grande d’Europa, segna il confine tra le due Ostie. Da una parte il regno del male, l’ormai famigerata piazza Gasparri, l’Ostia degli Spada, quella di Suburra, delle aggressioni ai giornalisti, dei bar dove c’è da aver paura solo a entrare per un caffè.
Serrande chiuse di giorno, spaccio di notte. Se vai verso l’interno, tra i palazzoni scrostati e i giardinetti in abbandono, lo scenario è apocalittico. Sul lungomare, i “dissuasori”, quei piccoli pilastri d’acciaio che servono a impedire l’accesso delle automobili alla spiaggia, sono stati buttati giù. E t’immagini già la scena: notte, il figlio del boss e i suoi amici, strafatti di coca, lanciano i Suv a tutta velocità, travolgendo quello che incontrano sul loro cammino, dissuasori compresi, e invadono la spiaggia sgasando. Inchiodano sulla battigia, scendono e urlano alle onde del mare in tempesta: «Qui i padroni semo noi, e famo come cazzo ci pare!». Taglio.
Questa è l’immagine di Ostia che ormai tutta Italia, e forse anche il resto del mondo, conosce. Dall’altra parte dell’ex colonia marina, però, inizia un altro mondo. Quello degli stabilimenti balneari, delle bellissime ville liberty, dove i ricchi romani venivano a villeggiare un secolo fa. Alcuni stabilimenti, i più chic, hanno mantenuto quel sapore vintage, elegante e raffinato. Marmo a terra, vetrate sul mare, ristorante con camerieri in guanti bianchi. Si sente parlare inglese, russo, ma anche italiano. Pochi bambini, poca caciara, signore bionde con la piega perfetta, ragazze splendide con fisici da copertina. Un altro pianeta rispetto alla Ostia di Suburra o a quella cafona dei tormentoni su YouTube, in perenne contrapposizione con la Capalbio dei radical chic. Tra tutti gli stabilimenti, il più ambito è il famoso Kursaal, il cui trampolino svetta sul litorale tanto da diventare il simbolo di Ostia beach, come la Torre Eiffel per Parigi.
È lui che ha preso il posto delle colonie marine di mussoliniana memoria, è lì che i pullman scaricano i bambini romani quando, finite le scuole, le famiglie non sanno dove collocarli. Alle suore si sono sostituiti gli animatori, ai bagni di sole antitubercolosi le piscine olimpioniche con scivoli e materassi gonfiabili. Se passeggi sul lungomare, lungo la ciclabile, incontri invece gli stabilimenti più popolari ed economici, per le famiglie. Li riconosci dalla musica a tutte le ore, i giochi da spiaggia, le urla dei ragazzini, i colpi della pallina che rotola nel bigliardino, l’odore di fritto della tavola calda. Ce n’è per tutti i gusti, perché Ostia è veramente la summa di tutte le spiagge d’Italia: un po’ Rimini, un po’ Versilia, un po’ Lido di Venezia.
E poi, ci sono i Cancelli, la spiaggia libera, dove vanno i pendolari del mare, quelli che non possono permettersi lo stabilimento né tanto meno il pernottamento. Quelli che prendono il trenino a Piramide, scendono alla stazione di Ostia e con poche fermate di autobus sono in spiaggia. E qui trovi ciò che non ti aspetti, come il cocomero dolcissimo della ragazza variopinta. Perché i Cancelli, dove per 5 euro ti puoi affittare l’ombrellone e con altri 5 anche il lettino, sono una serie di belle spiagge confinanti con la pineta di Ostia, pulitissime, un po’ selvagge, in mezzo alle dune. Niente da invidiare a Sabaudia o all’Argentario.
Ma la sorpresa più grossa di Ostia, quella che le racchiude tutte, è lì da dove sono partita: la ex colonia marina Vittorio Emanuele III. Se sbirci dentro i grandi finestroni liberty, d’estate sempre spalancati, bellissimi, che affacciano sul mare, a ogni porzione puoi scoprire realtà stupefacenti, una diversa dall’altra, che ancora una volta convivono fianco a fianco. Girandoci intorno, dalle finestre spalancate, puoi vedere ragazzi chini sui libri a studiare, perché una porzione dell’edificio ospita la biblioteca comunale Elsa Morante. Dall’altro lato, perfettamente restaurato, c’è il centro anziani. In mezzo, tra i due, una parte è in stato di abbandono: sono i locali occupati. Sui balconcini fatiscenti panni stesi, antenne e, soprattutto, parabole, parabole, parabole… Cerco di intrufolarmi, voglio saperne di più, capire.
Trovo un varco, al piano terra. Una ragazza dell’Est sta facendo le pulizie. Mi guardo intorno. C’è una reception, colori pastello alle pareti, tavoli apparecchiati. «Ma queste sono le case occupate?» domando ingenuamente. «Noo!» mi risponde, tra lo scandalizzato e il divertito. «Questo ostello! Come albergo, ma più economico». «E quelli?» chiedo, indicando i vicini, i cui muri scrostati e i mobili sfondati accatastati nel cortile contrastano con le fioriere e i tavolini davanti all’entrata dell’ostello. «Loro abusivi. Noi regolari. Noi paga l’affitto al Comune» sottolinea, rimarcando la distanza.
Continuando il giro, resto ancora più stupita: meraviglia delle meraviglie, sul retro, con la porta spalancata perché non è orario di spettacolo ma casomai di pulizie, mi appare un bellissimo teatro da 200 posti. Il responsabile, fiero, me lo mostra. È il Teatro del Lido, una costola del Teatro di Roma. Biblioteca e teatro funzionano a pieno ritmo, anche d’estate con spettacoli all’aperto, per cercare di rendere Ostia vivibile, non solo per i vacanzieri. Perché Ostia è mare, ma è anche città. Non è solo luogo balneare, ma un quartiere, forse tra tutti i quartieri romani, in questi anni di abbandono, il più dimenticato. E in fondo, continuando il mio giro, nell’ultimo spicchio, perché quest’enorme fabbricato che ha ospitato nel secolo scorso bambini italiani di famiglie povere è oggi lo specchio dell’Italia multiculturale dei nostri giorni, c’è anche la mensa della Caritas con a fianco una piccola moschea.
Il girotondo è finito: se ripercorro mentalmente il perimetro dell’edificio, vedo la moschea che confina con il centro anziani, che confina con gli abusivi, che confinano con l’ostello, che confina con la biblioteca, il teatro, la Caritas. E davanti la distesa azzurra del mare. Ostia è tutto questo. Se riuscirà a tenere insieme il caleidoscopio di realtà e diversità, a valorizzare le sue bellezze e la sua storia, e così a rinascere a nuova vita, potrà ancora sorprenderci.