«Sono sulla linea di partenza della finale dei 1.500 metri ai Mondiali juniores del 2016. È il momento in cui sono più nervosa. Lo speaker ha appena annunciato il mio nome e io, come ogni volta, cerco la mia famiglia tra il pubblico. Voglio che sappiano che corro anche per loro». Parla al presente Bobby Clay, quando descrive la foto sul suo profilo Facebook, e da questo tempo forzato si intuisce la malinconia che ha dentro. “Nata per correre” dovrebbe scrivere nella didascalia, come del resto continua a ripetere.

«La prima volta è stata a 6 anni» ricorda. «Correvo davanti a mia madre, non riuscivo a fermarmi». Si è fermata dopo una malattia che le ha sbriciolato le ossa in silenzio, mentre lei macinava chilometri, e nulla hanno potuto quei muscoli così forti che «se ne infischiano della fatica e tirano dritto». A fine 2016 Bobby ha raccontato la sua storia in una lettera sfogo pubblicata sulla rivista britannica Athletics Weekly e subito diventata virale. “Il mio incubo è l’osteoporosi” era il titolo, sotto un’altra immagine di lei-fenomeno, con la Union Jack alzata al cielo. L’ennesima istantanea che, però, ormai appartiene irrimediabilmente al passato.

L’osteoporosi a 20 anni. Com’è possibile?

È solo colpa mia. Ero ossessionata dalla voglia di primeggiare, come tutti gli atleti. Dai 16 ai 18 anni mi sono allenata con gli uomini adulti. Il mio trainer mi diceva che stavo esagerando, ma io non lo ascoltavo: volevo fare sempre di più. Sono arrivata a correre più di 120 chilometri alla settimana. E mangiavo pochissimo.

Niente feste e fidanzati, come tutte le adolescenti?

Non ne avevo il tempo. Una volta rientrata a casa, non c’ero per nessuno. Se non correvo, montavo a cavallo. O mi riposavo, per dare il massimo il giorno seguente. Niente veniva prima del running, nemmeno la mia famiglia. Soltanto ora capisco quanto sia stata egoista.

A un certo punto, però, hai dovuto aprire gli occhi.

È successo un anno fa. Entrata all’università, ho cambiato coach: insieme abbiamo deciso di alleggerire gli allenamenti. Arrivavo da un’estate senza magagne fisiche e andavo fortissimo. Sembravo la ragazza più sana della Terra.

Invece?

Invece mi sono rotta un piede nuotando. Pochi giorni dopo, i risultati degli esami mi hanno inchiodata alla realtà: a 19 anni avevo lo scheletro di una 80enne. Sono entrata in una fase di negazione. «È tutto ok» ripetevo. Finché una seconda frattura mi ha costretto ad ascoltare il mio corpo.

Che cosa stava cercando di dirti?

«Cado a pezzi, non posso andare avanti». Lì ho capito e mi sono isolata dal mondo: dovevo venirne fuori da sola. Non è stato facile: nei successivi 14 mesi, ho trascorso solo 4 settimane senza un osso rotto.

Oggi come stai?

Seguo una terapia ormonale sostitutiva. La speranza è che mi aiuti a recuperare densità ossea, insieme al movimento. Di correre ancora non se ne parla: nuoto e faccio esercizi per la muscolatura. Ma la sfida più grande è quella con la mia mente: poco alla volta, sto comprendendo che quel dolore non è sano.

Ti sei svegliata dall’incubo?

Ancora è dura. Ogni volta che un osso si spezza, un’altra parte di me se ne va. So già quello che mi diranno i medici: «Devi fermarti». Il rientro si allontana e io vado in crisi. Mi domando: «Chi sono io, senza la corsa?».

Che cosa ti ha spinto a scrivere quella lettera?

La paura che altre adolescenti affrontino questa tortura. È stato un anno terribile. Ho voluto dire loro: «Non abbiate fretta, pensate a divertirvi. E non crediate di essere invincibili».

Perché secondo te lo pensano?

Perché gli esempi che hai intorno pesano. Ero stata messa in guardia sui rischi dell’over-training, ma nell’atletica tante ragazze come me considerano il cibo un nemico e si ammazzano di allenamenti. È anche colpa della società, che ridicolizza i corpi quando non rispondono all’equazione magro-uguale- bello. Io mi guardavo allo specchio e mi dicevo «Vado bene così», anche se ero filiforme.

Sogni di tornare alle gare?

Non dovrei? Studio psicologia, mi piacerebbe diventare giornalista, ma ho un conto in sospeso con l’atletica. Sogno di partecipare a un’Olimpiade. Ci vorrà tempo prima di riprendere, ma non sono finita.

Se chiudi gli occhi e immagini di correre, che cosa senti?

La mente che mi parla, la rabbia e la tristezza che si diradano. Se poi penso di essere in pista, è tutta un’altra storia: vedo i miei limiti. E li supero sempre.

La triade dell’atleta

Conosciuta anche come “Reds” (Relative energy deficiency, cioè lo scarto tra energia prodotta e ingerita), è una sindrome che può colpire chi fa sport, agonistico e non. Diffusa fra entrambi i sessi, ha conseguenze più gravi per le donne. I sintomi sono 3.

Il disturbo alimentare Se l’esercizio fisico eccessivo è associato a un deficit di calorie, il peso scende in maniera insana.

Amenorrea Con il calo della massa grassa, arriva l’assenza o l’alterazione del ciclo mestruale.

Osteoporosi Quando l’equilibrio ormonale è alterato, le ossa rischiano una perdita di tessuto che aumenta il rischio di fratture.