Un papà che uccide suo figlio mentre si sta separando dalla moglie. Una storia purtroppo già vista. Questa volta però forse è ancora peggio perché questo papà, Davide Paitoni, 40 anni, era agli arresti domiciliari nella casa del padre per aver accoltellato un collega poche settimane fa, il 26 novembre 2021. Dopo aver ucciso il suo bambino e aver chiuso il corpicino nell’armadio, con una lettera di scuse al padre e di «grande disprezzo» per la moglie, ha cercato di uccidere anche lei, raggiungendola nella casa dei suoceri. Lei è viva (cosa che per una madre sopravvissuta all’uccisione del figlio, è una condanna peggiore della morte), lui è fuggito e poi è stato catturato nei boschi di Viggù, verso il confine con la Svizzera.

È il tribunale civile ordinario a valutare i diritti di visita ai figli

E così tutti ci facciamo la stessa domanda: possibile che un uomo agli arresti domiciliari continui a vedere suo figlio? Da quanto sta emergendo, i carabinieri lo conoscevano perché più volte sarebbe stato segnalato e la donna stessa lo aveva denunciato per maltrattamenti. Emerge anche che facesse uso di cocaina e che fosse stato fermato dai carabinieri per guida in stato d’ebbrezza. Eppure, suo figlio poteva vederlo, come ci spiega l’avvocato penalista Marco Micheli: «La legge lo consente perché il procedimento a suo carico era per aggressione a una persona estranea al nucleo familiare. Evidentemente al giudice non sono state rese note evidenze di una condotta violenta in famiglia. Se le avesse avute e le avesse ritenute rilevanti ai fini della pericolosità, avrebbe potuto disporre restrizioni ulteriori, come il divieto di avere relazioni con la moglie e con il figlio e magari anche coi terzi. In generale, comunque, non spetta al giudice penale regolare i rapporti tra padre e figlio ma è compito del tribunale civile ordinario o del tribunale per i minorenni».

Gli arresti domiciliari di regola non prevedono restrizioni alle visite ai figli

Di base, gli arresti domiciliari non prevedono limitazioni delle relazioni con gli altri. «Questa misura cautelare prevede che la persona su cui è in corso un procedimento stia nel luogo prescelto dal giudice, in questo caso la casa del padre. Quando ci sono evidenze di violenze in famiglia, gli arresti domiciliari non dovrebbero avvenire in casa» prosegue l’avvocato Micheli. «Ma il problema pratico è proprio questo: Fare in modo che il giudice che valuta la condotta di una persona in sede penale con riguardo a un certo reato, acquisisca le informazioni contenute in altri procedimenti, sia civili, come quelli di separazione, sia penali, come quelli sorti da eventuali denunce-querele presentate in altri contesti dal coniuge». E poi: «Possibile che l’avvocato della moglie, che aveva chiesto la separazione, non avesse fatto presente eventuali condotte maltrattanti?». Se lo chiede l’avvocata Cristiana Coviello, da sempre impegnata a difendere donne e bambini, soprattutto nei procedimenti con addebito di violenza verso i padri. «Mi sembra impossibile che al giudice non siano arrivate evidenze della violenza di quest’uomo. Il problema è che oggi molti giudici continuano a tenere separato il ruolo del marito da quello del padre, come se un compagno violento potesse essere un buon padre. I dati ci dicono che non è mai così e che la legge sulla bigenitorialità a tutti i costi non funziona. E poi ricordiamoci che un uomo può essere violento con suo figlio anche senza alzare mai le mani: c’è la violenza psicologica e c’è anche la violenza assistita, che procurano danni gravissimi ai bambini».

Ancora una volta la violenza non è stata capita

L’omicida di Viggiù, anche alla luce di quanto riferito dal presidente del tribunale di Varese, era agli arresti domiciliari per aver accoltellato un collega ed era stato denunciato per maltrattamenti in famiglia. «Purtroppo ancora una volta la piena circolarità delle informazioni nei procedimenti giudiziari, in questo caso tra procura e gip, non ha funzionato come avrebbe potuto e dovuto funzionare, ancora una volta la violenza domestica non viene letta o viene sottovalutata, e così non viene adeguatamente considerata la pericolosità sociale del soggetto». La denuncia, forte e chiara, è della senatrice Valeria Valente, presidente della Commissione d’inchiesta del Senato sul Femminicidio. «Nel pieno rispetto del lavoro della magistratura e dei diritti delle parti coinvolte, ci auguriamo che ora non si faccia ricorso per l’ennesima volta allo strumento dell’infermità mentale, troppo spesso evocata, per difendere un uomo violento che voleva con ogni evidenza vendicarsi della separazione dalla moglie, facendogliela pagare con il dolore più grande che può essere inflitto a una madre».

La violenza di quel padre non era così imprevedibile

Fino a oggi, comunque, anche un padre violento, con denunce e perfino condanne, può continuare a vedere i suoi figli, nonostante i bambini – come spesso accade – si oppongano. Per cambiare questa legge, proprio la senatrice Valeria Valente ha proposto un disegno di legge, di cui è prima firmataria, per cui l’affido a un padre violento sia immediatamente sospeso dal giudice. Questo disegno di legge segue la traccia segnata dal Parlamento europeo, che ha appena approvato una mozione in cui chiede la protezione di donne e minori nei casi di separazione con violenza domestica.

Il problema, però, è che le procure devono comunicare tra loro, come sottolinea l’avvocata Coviello: «È fondamentale che il giudice penale che ha di fronte un uomo violento sappia se, nel frattempo, quest’uomo abbia in corso una causa di separazione, magari con addebito di violenza da parte della donna. Ma soprattutto è fondamentale che i giudici imparino a credere alle donne: se una mamma vuole proteggire il suo bambino nella maggior parte dei casi non lo fa per alienarlo dal padre ma perché ha fondati motivi per ritenere che il padre sia pericoloso». Quindi la mamma di Daniele non è riuscita a proteggere il bimbo perché l’esplosione di violenza del padre è stata così imprevedibile o perché chi ha disposto gli arresti domiciliari non ha valutato con attenzione il caso?

La pandemia pesa anche nei tribunali

Ad aggravare la difficoltà di comunicazione tra uffici, c’è la questione pandemia, come sottolinea l’avvocata: «Oggi i giudici si limitano a leggere le carte, vedono raramente le persone coinvolte nei procedimenti. Come possiamo pensare che le situazioni vengano decifrate, capite, indagate nel migliore dei modi possibile?».