«Sono in galleria, in macchina con i miei figli quando scoppia un incendio. Dobbiamo scappare, ma è impossibile: l’uscita è bloccata e i nostri tentativi di metterci in salvo vanno in fumo. Non ci resta che aspettare che qualcuno venga a salvarci, ma l’attesa è infinita e l’angoscia cresce, cresce, cresce». Il sogno che da settimane tormenta Chiara, mamma 40enne di Torino, dice molto su quello che stiamo vivendo in questi mesi. Fa luce sulle sensazioni, nuove e laceranti, che tutti noi proviamo.
«La prima ondata è stata il momento del colpo, del pugno improvviso, dell’incidente frontale. In quelle settimane le emozioni predominanti erano la paura, lo spavento, la sorpresa. Sentimenti dolorosi ma momentanei, che in qualche modo restano “in superficie”» spiega Damiano Rizzi, psicologo clinico e presidente di Fondazione Soleterre. «Come un pugile quando riceve un gancio in faccia, siamo rimasti storditi, ma comunque in piedi» aggiunge Rocco Ronchi, professore di Filosofia teoretica all’università dell’Aquila. «Anzi, in quei mesi c’era anche una sorta di eccitamento, tipica di quando si devono affrontare situazioni nuove».
Un’assenza di energia che ci immobilizza
«Dopo l’estate, che abbiamo vissuto come la fine di un incubo, come un ritorno alla vita, siamo piombati nell’angoscia. Una paura più profonda, dallo spazio e dal tempo indefinibili, un sentimento permanente e cronico» spiega Rizzi. Un sentimento che è legato a doppio filo all’attesa, come sa bene Chiara che è stanca di aspettare, nel sogno come nella vita, qualcuno che la salvi e che giorno dopo giorno sente scemare la voglia e la forza di reagire. «L’angosciato attende un colpo ed è certo che arriverà. E sa anche che quando arriverà sarà impreparato» dice Ronchi.
È normale che questa consapevolezza amara provochi in noi anche rabbia, senso di colpa e frustrazione. Tutti sintomi che gli esperti hanno già etichettato e che ormai accomunano il mondo intero. “Pandemic fatigue” l’hanno chiamata. Una sindrome studiata dall’Organizzazione mondiale della sanità e caratterizzata da un’assenza di energia così forte da immobilizzarci.
La pandemic fatigue è un tipo di fatica molto particolare, nuova, una stanchezza mentale che secondo gli ultimi studi ha colpito il 60% della popolazione europea. «È un po’ come se fossimo tutti Covid-positivi a livello mentale. Proviamo quella sensazione in cui si desidera fare una cosa ma poi non la si fa, non per un impedimento fisico ma perché è mentalmente faticosa e quindi si rinuncia» spiega Rizzi. Esattamente quello che succede a Chiara. «Ero una persona super attiva» racconta. «Ma adesso fare anche le cose più semplici e divertenti, come leggere, giocare con i bimbi o cucinare, mi pesa». È normale allora quello che prova Chiara. Una stanchezza che spesso si traduce in rassegnazione.
Una insofferenza alle regole
«Se all’inizio di una situazione di emergenza le persone attivano sistemi di adattamento e risposta allo stress che le rende ricettive e reattive, quando l’allarme diventa cronico e prolungato, quando si percepisce che quello che si fa non è mai abbastanza, in molti scatta l’irrequietezza, la contrarietà alle norme imposte e persino la negazione del pericolo» spiega lo psicologo. Insomma, quando ci abituiamo al rischio e lo “normalizziamo”, tendiamo a proteggerci di meno, mettiamo in atto cioè una forma di rimozione, una difesa della psiche.
Dice il grande filosofo Friedrich Nietzsche: chi ha un “perché” per vivere sopporta quasi ogni “come”
Cosa possiamo fare per non rimanere schiacciati da questa stanchezza?
«Per ritrovare risorse in se stessi e ricominciare a progettare un futuro prossimo è indispensabile avere un orizzonte temporale, un tempo definito. La nostra mente per funzionare bene ha bisogno di muoversi entro confini delineati. Delimitare permette di contenere l’ansia e ritrovare le forze». Quindi, proprio come Chiara sta facendo in questi giorni, bisogna darsi piccoli obiettivi quotidiani, da portare a termine, con costanza e dedizione.
Non solo. «Il Covid ci ha costretto a sperimentare il limite. Il limite della vita, della scienza, della politica, dell’economia, del futuro stesso» dice il filosofo. Un colpo duro ma che può avere anche aspetti positivi. «Se la scoperta di questi limiti da un lato provoca tristezza, dall’altro permette di avere uno sguardo più distaccato e limpido su noi stessi. Ci ha messo a disposizione un setaccio fitto-fitto che ci fa capire cosa è veramente importante, che ci fa fare una cernita tra ciò che vale e ciò che non vale» spiega Rocco Ronchi. Ma non solo. «Il fatto di toccare con mano i nostri limiti, ci rende nudi, ci permette di scoprirci, di conoscerci meglio, di vedere con più lucidità cosa succede attorno a noi» spiega.
Insomma, è come se il Covid fosse un grande specchio in cui tutti ci vediamo riflessi. E il fatto di vederci anche con le nostre debolezze e paure, produce consapevolezza, sapere, autocoscienza. «Il meccanismo è simile a quello dell’elaborazione del lutto. In cui di solito dopo la rassegnazione e l’angoscia, arriva finalmente la speranza, la voglia cioè di ritrovare un senso e di poter riprogettare un futuro, il desiderio di riadattarsi non tanto e non solo alla nuova situazione esterna, ma a noi stessi» aggiunge lo psicologo.
Perché, come dice il grande filosofo Friedrich Nietzsche, chi ha un “perché” per vivere sopporta quasi ogni “come”. E così perfino il peso di dover convivere con il virus potrebbe diventare più lieve. «Anche perché questa pandemia ha avuto un altro effetto, quello di unificare il Pianeta, di farci sentire per la prima volta parte di una sola, grande comunità. Di integrarci in un tutto, mettendo in discussione i nostri individualismi ed egoismi. E dandoci la speranza che la salvezza sia una salvezza collettiva, non individuale» conclude l’esperto. Una bella speranza, perché oltre a darci un senso, un appiglio per non provare la sensazione di cadere nel vuoto, ci fa sentire anche un po’ meno soli.