Una voce che torna, 27 anni dopo la strage di via D’Amelio, e rimarca l’amarezza di Paolo Borsellino. Lo sconforto per una lotta alla mafia portata avanti, da parte sua, con il massimo impegno, ma fra istituzioni distratte e mezzi inadeguati. Emerge dalle parole che lo stesso Borsellino pronuncia in audizione davanti alla commissione antimafia. Scortato con «strombazzamento di sirene, solo la mattina: cosicché io, sistematicamente, il pomeriggio mi reco in ufficio con la mia automobile (…) non so che senso abbia farmi perdere la libertà la mattina per essere, poi, libero di essere ucciso la sera». “Libero di essere ucciso”, un audio scioccante che è parte degli atti desecretati dalla stessa commissione pochi giorni fa, e che ha riacceso una luce su una figura centrale della lotta alla criminalità nel nostro Paese.
La strage del 19 luglio 1992
Borsellino è morto insieme ad altri cinque uomini di scorta il 19 luglio 1992. Si chiamavano Agostino Catalano, Claudio Traina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina. Borsellino aveva 52 anni ed erano passati soltanto 57 giorni dalla morte del collega e amico Giovanni Falcone, a Capaci. Il 19 luglio del 1992 era una domenica, e Borsellino era andato a trovare la sorella e la madre che abitavano in via D’Amelio. Alle 16.58 la detonazione dei 90 chili di esplosivo, nascosti in una Fiat 126 rubata e parcheggiata lungo la strada. «Brandelli di carne umana dappertutto», questo rimase del giudice e dei colleghi di Antonino Vullo, l’unico uomo della scorta sopravvissuto all’esplosione, perché stava parcheggiando la vettura.
Via D’Amelio si trasformò in teatro di guerra, con una altissima colonna di fumo nero a segnare per ore, forse per sempre, il cielo di Palermo; con le facciate dei palazzi distrutte, le auto incendiate. Nel caos e con la zona dell’attentato non adeguatamente limitata, svanì la celebre agenda rossa che Borsellino portava sempre con sé e sulla quale annotava spesso appunti, soprattutto dopo la morte di Falcone.
Processo ancora in corso
Questi 27 anni non sono bastati a dare risposte definitive sulla strage di via D’Amelio. Quattro processi, un filone parallelo di inchiesta sui presunti “mandanti occulti”, un carosello di pentiti e presunti tali. Nel 2018 una sentenza della Corte d’assise di Caltanissetta parlò di «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana», riferendosi proprio ai processi che cercarono di far luce su mandanti ed esecutori dell’attentato. La procura di Caltanissetta ha istruito il processo sul depistaggio nel 2018 e ha coinvolto anche la procura di Messina. Da lì, a metà giugno, sarebbero partiti avvisi di garanzia anche per alcuni magistrati, accusati di calunnia aggravata.
La solitudine del giudice
L’amarezza torna a farsi sentire, dicevamo, e ad essa si aggiunge la rabbia. Quella della figlia del giudice, Fiammetta Borsellino, espressa a chiare lettere durante un’occasione pubblica in aprile. «C’era chi doveva fare da sentinella rispetto ad un cattivo percorso, che ha visto il coinvolgimento di servizi segreti e omissioni nelle indagini. Ma tutto questo è avvenuto senza che nessuno alzasse un dito (…) I topi si stanno mangiando i faldoni sui processi delle stragi. Lo stesso tradimento che ha sentito mio padre, e il senso di solitudine che ha vissuto anche da parte della sua categoria».