Oggi, un venerdì freddissimo di gennaio, mentre fuori nevica io entro nella mia trentanovesima settimana di gravidanza. Tra poco, io e il tuo papà ti conosceremo. Dopo averti immaginato, sbirciato attraverso le ecografie, sentito scalciare di notte e dato un nome, Arturo, adesso finalmente stai arrivando. Penso a tutte queste cose mentre sono sul lettino e lascio che l’ostetrica esegua gli ultimi controlli. «Sa che stanno valutando di richiudere le sale parto?» mi dice lei all’improvviso, una frase che infrange il gelo della stanza e la spirale dei pensieri. «D’altronde i contagi superano i 200.000 al giorno, siamo di nuovo in piena emergenza».
Vogliono vietare nuovamente che i padri assistano al parto: da quel momento non riesco più a pensare ad altro. Mi rivesto in fretta, mi catapulto in strada, faccio un giro di telefonate per accertarmi che la notizia sia vera. Lo è, purtroppo.
Chiamo Andrea. «Che senso ha?» mi dice lui con un filo di incredulità nella voce. «Ho tre dosi di vaccino, un super Green pass rafforzato, posso fare un tampone prima di entrare e non posso veder nascere mio figlio?». Io trattengo le lacrime e mi scappa una battuta triste. «Se vuoi puoi anche andare al centro commerciale mentre sono in travaglio. Al cinema, allo stadio o al ristorante. Ma non potrai stare con noi».
Sento la rabbia prendere il posto della tristezza. Che senso ha parlare di politiche a tutela della famiglia e di genitorialità condivisa, coinvolgere i padri nei corsi preparto, vivere in due ogni visita, ogni esame, provare ogni sera insieme le tecniche di respirazione se poi, con un provvedimento ottuso e inutilmente crudele, ci ritroviamo di nuovo sole in un momento così delicato? La rabbia che provo non è frutto di un capriccio o della paura: sento che stanno cancellando, con un colpo di spugna, i nostri diritti. Il diritto dei padri ad assistere ai primi istanti di vita del proprio bimbo. Dei piccoli a nascere con entrambi i genitori vicini. E soprattutto di noi donne che, ancora una volta, paghiamo il prezzo più alto in questa pandemia. Abbiamo perso il lavoro più degli uomini, ci siamo addossate la gestione e la cura di case e famiglie invase da smart working, quarantene, figli in dad. E, ancora una volta, non abbiamo voce nelle decisioni che riguardano noi e i nostri corpi.
Mi fermo in un bar, ordino un cappuccino, sfogo su Instagram il senso di ingiustizia, la frustrazione, la tristezza. Poche ore dopo, il post è virale. Condivisioni, messaggi, testimonianze di donne da ogni parte d’Italia che mi raccontano le loro storie. Due anni, fatta eccezione per pochi mesi estivi, in cui hanno dovuto affrontare da sole le difficili ore del travaglio e quelle, a volte più complicate, della degenza postpartum. Lisa, mi dice, era sola in ospedale, il suo compagno solo in macchina, sperando che a un certo punto lo facessero entrare: conoscerà sua figlia Alice solo alle dimissioni. Sara trema ancora al ricordo dei giorni successivi: la montata lattea che non arrivava, l’inadeguatezza di fronte al pianto del bambino, il bisogno di avere accanto l’unica persona che l’avrebbe fatta sentire sicura nel momento in cui era più fragile.
Valentina mi ha confessato che, se non avesse dovuto fare un cesareo, avrebbe scelto di partorire in casa. E poi, invece, ci sono i messaggi che arrivano dall’estero: da Berlino alla Svezia, dal Belgio alla Spagna, Chiara, Elena e tante altre mi raccontano come i governi tutelino il loro diritto a partorire con il supporto del compagno (tamponato e negativo), presente fino alle dimissioni. Loro, fortunate, hanno ricordi belli dei giorni in ospedale: un momento doloroso, faticoso, ma in cui, oltre ai bimbi, hanno sentito nascere la loro famiglia.
Mentre leggo sento cadermi addosso una cappa di solitudine. Lo so che l’assistenza medica sarà garantita ma non mi basta perché so anche che con Andrea durante il travaglio avrei condiviso tutto, che mi sarebbe bastato guardarlo negli occhi. È sempre stato cosi in questi mesi: quando avevo dei dolori il suo modo di toccarmi, di accarezzarmi placava il male, ma anche l’ansia e lo spaesamento. Non è solo perché siamo una coppia, ho letto che c’è una motivazione biologica: gli stimoli dolorosi e quelli che ci fanno stare bene viaggiano lungo gli stessi canali nervosi e più ricevi sensazioni piacevoli meno il tuo cervello avverte la sofferenza. E nessuna ostetrica, nessun medico possono avere la sensibilità e il modo di starmi vicino di Andrea. Né possono riuscire a comunicare con il bambino come fa lui. Ogni volta che parla o tocca la mia pancia, sento nostro figlio scalciare e muoversi. La sua voce durante il travaglio ci avrebbe rassicurati entrambi.
In ospedale mi dicono che forse il mio compagno verrà ammesso in sala parto ma solo nell’ultimo quarto d’ora prima della nascita. E poi potrà venire a trovarci ma per una mezz’oretta al massimo. Dovrei sentirmi sollevata? Non ci riesco. Si dice spesso che per mettere al mondo un figlio serva un villaggio. Io mi accontenterei di uno Stato che sappia attuare un protocollo sanitario efficace senza calpestare i diritti di donne, uomini e bambini. Che ci permetta, dopo due anni di pandemia, di partorire in sicurezza ma senza perdere la tenerezza.
Dalla parte di lui
Mi sono sentito inutile
Claudio è uno dei papà rimasti dietro la porta, a camminare su e giù per un corridoio mentre suo figlio Gianluca veniva al mondo. È nato due giorni prima della nostra intervista, a Bari, ma di quel momento al papà restano solo due foto scattate in fretta e furia, mentre portavano il piccolo in nursery. «Non conosco l’odore di mio figlio, non so com’è. Proprio io, che non mi ero voluto perdere nulla dalla prima ecografia, che per nove mesi non ho fatto altro che parlargli dalla pancia.
In tutto questo tempo mi ero preparato assieme a Lucia, la mia compagna, sapevo tutto del parto, dove dovevo posizionarmi, cosa avrei dovuto fare, non pensavo ad altro che al momento in cui l’avrei visto materializzarsi davanti a me. Invece di colpo sono diventato un estraneo, come se quel parto non mi riguardasse. Quando Gianluca è nato la dottoressa è uscita, mi ha detto: “Tutto bene, ora venga al piano di sopra per firmare i documenti, tra mezz’ora passa sua moglie, può vederla ma, mi raccomando, senza toccarla”».
Con tre dosi di vaccino e persino l’antinfluenzale Claudio era certo di potere entrare: «Ci eravamo già organizzati per fare il tampone ogni due giorni, per essere sempre pronti. Poi sabato notte la batosta. A Lucia si sono rotte le acque, siamo andati all’ospedale. Le hanno detto che l’avrebbero portata in sala parto, ma che io non avrei potuto neanche affacciarmi, troppo rischioso. Come se fossi un “di più”, un orpello inutile».
Claudio non ci dorme da giorni, è arrabbiato. «Noi uomini rimaniamo spettatori per tutto il corso della gravidanza, vediamo solo una pancia che cresce, un tesoro da difendere. È quando nascono questi bambini che realizziamo di essere papà, e io mi sento derubato di questa emozione».
Testimonianza raccolta da Giorgia Nardelli
Foto di Blessed Brands Studio