Il 6 giugno è la Giornata internazionale del parto in casa, tradizionalmente scelto da una percentuale ridotta di donne, ma che in periodo di pandemia ha registrato un aumento considerevole. Colpa del coronavirus e della paura di ammalarsi, recandosi in ospedale, soprattutto in regioni come la Lombardia, particolarmente colpite: «Nelle scorse settimane sono triplicate le richieste di informazioni che si sono tradotte anche in parti veri e propri in casa, chiesti da coppie spaventate dal rischio di contagio. Noi siamo presenti in tutta Italia, ma sicuramente il dubbio si è posto soprattutto per chi vive nelle zone più colpite dal COVID» dice Marta Campiotti, Presidente onoraria dell’Associazione nazionale culturale ostetriche Parto a domicilio.

La paura del Covid-19 (anche nei padri)

Siamo in fase 3 con sempre maggiori riaperture, ma nel mondo sanitario la normalità è ancora lontana dopo lo stop ai servizi non urgenti negli ospedali. Proprio i rischi legati al Covid hanno spinto anche molte mamme a evitare persino l’idea del parto in ospedale, in questo sostenute dai partner: «Moltissimi papà si sono informati perché vedevano e vedono tuttora gli ospedali come luoghi da evitare. Ha pesato molto anche l’idea di non poter entrare in sala parto e assistere alla nascita del proprio figlio. Noi abbiamo accolto solo le richieste più motivate e soprattutto che garantissero le condizioni di sicurezza necessarie» spiega Campiotti.

Paola e il parto a casa

«È stata un’esperienza bellissima, ne sono orgogliosa anche se inizialmente pensavo che potessero farlo solo le superdonne» racconta Paola, 35 anni, di Genova, che è diventata mamma di Zeno Oliver l’8 aprile, in pieno lockdown. Era partita con l’idea di un parto in acqua, quindi in ospedale, ma non appena è scoppiata la pandemia ha iniziato a preoccuparsi: «Ero alla 35esima settimana, dunque in una fase piuttosto avanzata della gravidanza, e il COVID mi ha creato un’angoscia terribile che aumentava col passare dei giorni. Per sfogarmi ho chiamato la mia ostetrica del corso pre-parto organizzato dall’associazione Le Maree che fa capo alla rete nascereacasa.it, e lei mi ha prospettato la possibilità di partorire a casa. E così è stato, seguita da tre ostetriche che fino all’ultimo momento utile mi hanno chiesto se preferissi andare in ospedale. Ma io ero ormai serena e non volevo essere spostata da lì né lasciare il mio compagno. Mi sono anche dimenticata dell’idea che in ospedale avrei potuto chiedere un’epidurale» racconta Paola. «Mi sono sentita rassicurata anche quando, dopo due ore dall’inizio della fase espulsiva, il protocollo prevedeva di chiamare il 118. In realtà i paramedici sono arrivati con le loro tute protettive, ma nel frattempo Zeno Oliver è nato senza bisogno di alcun intervento» dice la neomamma.

Clelia e l’imprevisto dell’ultimo minuto

Clelia invece, 36 anni, di Varese, aveva già deciso per il parto domiciliare ma un imprevisto dell’ultimo minuto non lo ha reso possibile: «Alla rottura delle acque il liquido amniotico aveva una lieve colorazione che ci ha fatto valutare che fosse necessario un monitoraggio continuo, dunque in ospedale. Non è stata un’emergenza, ma una scelta responsabile: siamo andati in auto insieme e io sono entrata in sala parto con la futura mamma» racconta l’ostetrica Marta Campiotti. Racconta Clelia: «Ero spaventata all’idea di partorire in ospedale per via dei possibili contagi e soprattutto avrei voluto che mio marito fosse presente. Quando abbiamo capito che era necessario andarci, la tensione di fatto ha reso più lunghi i tempi del travaglio. Poi in sala parto, affiancata dalla mia ostetrica, mi sono rilassata e anche mio marito, tutto bardato con tuta, mantello, guanti, mascherina e visiera, ha potuto assistere alla nascita di nostro figlio Noa Antonino, il 27 marzo scorso, in piena pandemia» racconta Clelia.

I rischi da calcolare

La Società Italiana di Neonatologia (SIN) avverte che il parto in casa non può essere scelto da chiunque, in quanto «potenzialmente pericoloso, se non si adottano misure organizzative e criteri clinici di selezione delle gravide appropriati» come chiarito dal presidente Fabio Mosca. Il tasso di mortalità dei parti pianificati a domicilio negli Usa è 1.26 ogni 1.000 nati, contro lo 0,32 di quelli ospedalieri. A pesare è la minor assistenza che può essere fornita in casa. «Una ricerca inglese – dice ancora Mosca – dimostra come più del 10% di tutti i parti pianificati a casa vengano poi concretizzati in ospedale per sopraggiunte complicanze materno-fetali. Per le primi-gravide, ciò avviene fino al 45% dei casi». Allora quali precauzioni adottare?

Quando è sconsigliato (e quando può essere una buona occasione)

Se da un lato c’è uno zoccolo duro, seppure più limitato, di donne che scelgono il parto domiciliare per convinzioni personali (ridurre l’intervento medico, motivi culturali o religiosi), è il timore di contagio ad aver inciso maggiormente sul recente aumento dei parti domiciliari, che però non sono consigliabili per tutte le donne: occorrono  «l’assenza di malattie materne preesistenti o significative nel corso della gravidanza, età materna non superiore ai 35 anni, feto singolo, presentazione cefalica e una gravidanza tra la 37esima e la 41esima settimana in una donna pluripara» come ricorda la SIN. L’American College of Obstetricians and Gynecologists Committee on Obstetric Practice lo esclude poi per le donne che abbiamo partorito in precedenza con taglio cesareo.
Gli esperti neonatologi consigliano sempre di rivolgersi a personale qualificato , con attrezzature necessarie alla rianimazione del bambino e che possano contare su una rete prestabilita di soccorso urgente in caso di trasferimento in ospedale. Inoltre deve esserci un’adeguata assistenza ai neonati a casa, coerente con quella di una struttura medica: «Tutte condizioni che solo associazioni specializzate possono garantire» conferma Campiotti. Infine, nella scelta vanno anche tenute in considerazioni alcune condizioni attuali: nonostante l’emergenza sanitaria sia rientrata è possibile che, in caso di necessità, l’arrivo di un’ambulanza possa richiedere tempi più lunghi quindi va valutata la distanza tra la propria abitazione e le strutture sanitarie.