Affrontare il parto in modo sereno è complicato

Del giorno in cui ho messo al mondo mia figlia ricordo l’angoscia, il dolore, lo spaesamento. E, a qualche metro dal mio letto, Francesca che non smetteva di ripetermi, con un sorriso beato a distenderle il volto, come le 12 ore di travaglio appena concluse fossero «il momento più intenso, travolgente e bello della mia vita». Sta in questa sliding door, fisica ed emotiva, il ventaglio di sensazioni che accompagnano il parto. Un’esperienza che in Italia vivono ogni anno 400.000 donne e nel mondo ogni giorno 237.000. Dovrebbe dunque essere quanto di più naturale esista, eppure affrontarlo, e parlarne, in modo sereno è molto complicato, perché fin dalla notte dei tempi è stato caricato di significati altri: sociali, culturali, religiosi, ideologici. Basti pensare all’enfasi mistica del “miracolo della vita” o, all’opposto, alla condanna biblica “con dolore partorirai figli”.

Il significato storico del parto

Il paradosso è che un momento riguardante esclusivamente il corpo delle donne sia stato per millenni piegato alle regole stabilite dagli uomini. «Fin dall’antichità mettere al mondo un bambino era un obbligo per la donna, a meno che non decidesse di chiudersi in convento. Serviva a darle pieno significato, era il suo ruolo sociale» spiega Alessandra Foscati, ricercatrice in Storia medievale all’Università di Lovanio e autrice del saggio Le meraviglie del parto (Einaudi). «I figli maschi da un lato rappresentavano la forza lavoro dei nuclei contadini e operai, dall’altro assicuravano la continuità ereditaria delle stirpi nobiliari. Mentre le femmine, grazie a matrimoni combinati, erano necessarie a creare legami che portassero vantaggi alla famiglia d’origine».

Non solo. Anche le fonti mediche nella maggior parte dei casi erano redatte da uomini. «Un esempio? Il chirurgo François Rousset fu il primo nel 1581 a teorizzare l’incisione cesarea su una donna viva, peccato non ne avesse mai eseguita una. Fino ad allora la pratica era stata messa in atto solo dopo la morte della madre al fine di estrarre il feto, eventualmente ancora vivo, per battezzarlo o per ragioni legate all’eredità. Prima di divenire un’operazione importante per la salvezza della madre e del bambino, come è oggi, il cesareo portò alla morte di moltissime donne» continua Foscati.

L’angoscia di non essere all’altezza

Questi retaggi culturali resistono, più o meno sottotraccia, ancora oggi. «Dall’età moderna in poi inizia a trapelare la paura di essere sterili o di non riuscire a portare avanti la gravidanza: è la manifestazione di un’altra angoscia, quella di non essere all’altezza del compito affidato a una donna dalla società» aggiunge Foscati. Una sensazione di inadeguatezza che troppo spesso fa anche dimenticare che «il parto è una condizione parafisiologica. Un momento da affrontare con un approccio accudente ma non apprensivo nei confronti della gestante» riflette Susanna Banti, psichiatra dell’Associazione Oramamma. «Nei corsi di accompagnamento alla nascita sarebbe importante suggerire alle future mamme di viverlo come un evento naturale e non come una prestazione, oggetto di valutazione da parte di parenti e amici, che può provocare ulteriori timori e soprattutto frustrazione. Notiamo che le primipare, oltre ad avere una comprensibile paura del dolore, rimuginano spesso sul modo in cui partoriranno. Sarà vaginale o cesareo, con l’utilizzo di induttori o con l’ausilio dell’epidurale? Le donne che hanno già altri figli, invece, si concentrano sulla precedente esperienza, soprattutto se traumatica, e su come riusciranno a gestire il nuovo ménage familiare».

Negli ospedali spesso manca empatia

Un aspetto da non sottovalutare, quando si parla della serenità delle future mamme, è la medicalizzazione del parto, a volte eccessiva. Dobbiamo senz’altro ringraziare la scienza che ha fatto passi da gigante per la salute delle madri e dei figli: non a caso, 9 volte su 10 si sceglie di partorire in ospedali pubblici e il 62% delle nuove nascite avviene in strutture rodate, che ne contano almeno 1.000 all’anno. Eppure tante donne hanno spesso la sensazione di essere solo un numero e lamentano la mancanza di empatia e calore. Come Cristina Bertucci, 33 anni, insegnante lombarda: «Ho fatto 30 ore di travaglio. Ho supplicato per un cesareo che, alla fine, è arrivato. Ma ho ancora gli incubi, mi sveglio la notte e mi metto le mani sulla pancia. Vivo nel terrore, nonostante gli anticoncezionali, di restare incinta di nuovo». Proprio per sentirsi più accudite e coccolate alcune, senza rinunciare alla sicurezza, preferiscono partorire in casa. «Non volevo interrompere il ciclo di nascite fra le mura del cascinale in campagna che va avanti da centinaia di anni nella mia famiglia» racconta Matilde Raggi, 29 anni, emiliana. «È andato tutto bene, ma mi ero presa cura di ogni dettaglio e mi hanno assistito due ostetriche professioniste».

Dopo il parto, lo spaesamento per il grande cambiamento di vita

A tutto ciò si aggiungono altre emozioni contrastanti. Anche queste assolutamente naturali, ma non perciò vissute senza ansie. «Fattori che possono assumere valore significativo prima del parto sono la preoccupazione per la salute del nascituro, l’ansia di non essere una madre adeguata e quindi in grado di accudire il proprio figlio, la paura di perdere l’intimità di coppia quando si sarà in tre e, in particolare per le donne che partoriscono più in là con gli anni, lo spaesamento per il grande cambiamento di vita che dovranno affrontare dopo la nascita» osserva Alessandra Bramante, psicologa e presidente italiana della Marcé Society, un’organizzazione internazionale dedicata a sostenere ricerca e assistenza prenatale e post-partum.

È ciò che è successo a Nicoletta, 46 anni, manager in una multinazionale: «Ho rimandato per anni. Prima perché non avevo un compagno adatto, poi perché puntavo alla sicurezza economica, dopo ancora perché, a carriera avviata, sapevo che una gravidanza avrebbe pregiudicato il mio percorso. Alla fine sono rimasta incinta a 44 anni. Fisicamente e psicologicamente è stato molto faticoso. Non mi vergogno ad ammettere che, nonostante siano passati 2 anni, non mi sono ancora ripresa. Sul lavoro, poi, è stato un disastro: tutt’oggi sono penalizzata per aver scelto di avere un figlio».

Anche per questo in Italia si fanno pochi figli

Navigando a vista fra emozioni, paure e sentimenti, è facile capire come la strada sia ancora lunga. Un cammino che per molte assomiglia a una corsa a ostacoli in cui la serenità personale ed economica sono le prime a vacillare. «Anche per questo nel nostro Paese si fanno pochi figli» ragiona lo statistico Roberto Volpi, autore de Gli ultimi italiani. Come si estingue un popolo (Solferino). «Dal punto di vista demografico viviamo un declino neanche troppo lento: poco meno del 18% dei 60 milioni di abitanti del nostro Paese sono in età pediatrica. Dovremmo avere il coraggio di riconoscere come le politiche incentrate sugli assegni familiari o sui servizi per l’infanzia gratuiti siano solo una parte della soluzione. È fondamentale ricordare che da noi l’indipendenza economica arriva dopo i 30 anni, quando si rischia che sia troppo tardi per fare un figlio. E, se ci si riesce, quasi mai si pensa al secondo».

Non esiste un modo giusto di partorire

Da anni l’Italia registra un aumento esponenziale dell’età media delle primipare – oggi è 32,2 anni, nel 2010 era di 31,3 – e una delle natalità più basse in Europa: 1,25 bambini per donna (davanti solo a Spagna e Malta). Perciò, oltre che su politiche sociali più innovative, occorre agire sui condizionamenti sociali e culturali di cui parlavamo all’inizio. Pensare un po’ di più al cuore e un po’ meno alla pancia delle future madri. «Non esiste un modo “giusto” di fare famiglia, tantomeno di partorire» sottolinea la dottoressa Banti. «Non tutte le neomamme riescono ad allattare, per esempio, e ognuna deve poter trovare il “suo” modo di relazionarsi col bambino. Libera da pressioni e pregiudizi. Occorre promuovere questi concetti perché nessuna pensi più: “Non sono all’altezza”».