Mentre scrivevo Figli di nessuno, il libro con Pasquale Guadagno, orfano di femminicidio, un giorno lui mi ha detto: «Non puoi sapere come mi sento, ogni tanto devo rallentare, fermarmi. Mi perdo». Era vero: non potevo sapere cosa significasse non ricordare, avere bisogno di ansiolitici per andare avanti, vivere con gli attacchi di panico, aver toccato il fondo. Essere solo, non soltanto sentirsi solo.

Convivere con la consapevolezza di essere figlio di un uomo che ha ucciso la madre e che per anni aveva normalizzato la violenza in famiglia accanendosi anche su di lui. Come quando lo chiudeva in una stanza buia per punizione, sapendo quanto lo terrorizzasse l’assenza di luce. Come quando alla fine di un gioco, invece di abbracciarlo, lo immobilizzasse sputandogli in faccia. Era sua madre a mettersi in mezzo per proteggerlo, a prenderle al posto suo.

Figli di nessuno racconta la sopravvivenza di un orfano di femminicidio

Non lo posso capire io e non lo può capire chi giudica, si avvita sulla critica al patriarcato e dibatte degli ultimi casi di femminicidio nei salotti televisivi, sui giornali, sui social, per strada, nei bar e nelle stanze istituzionali dove si riscrivono le leggi con una visione parziale della realtà. Figli di nessuno è il libro che vuole colmare questa mancanza per avere una visione totale di cosa rappresenti subire violenze e crimini in ambito familiare. Racconta la sopravvivenza di un adolescente, Pasquale Guadagno appunto, oggi 28enne, dopo che suo padre Salvatore ha ucciso nel 2010 la moglie Carmela Cerillo, 37 anni, madre di due figli, lui e Annamaria, di 4 anni più grande, strangolandola nella cucina della loro casa a Feletto Umberto, una frazione di Udine.

Copertina del libro "Figli di nessuno" di Pasquale Guadagno con Francesca Barra
La copertina di Figli di nessuno (Rizzoli), il libro che Pasquale Guadagno ha scritto con la giornalista Francesca Barra per raccontare la sua storia

Pasquale Guadagno: questa è la mia storia

Quel giorno, il 25 aprile, avevano pranzato come sempre con le prelibatezze che cucinava Carmela, abile cuoca, soprattutto con le ricette della tradizione napoletana.

«Quella domenica ci aveva preparato i paccheri alla genovese, un piatto che la riportava a casa, nella sua terra, fra i suoi sapori e le persone che avevano avuto cura di lei. Finito il pranzo, mia sorella era uscita e io mi ero accordato con la mia amica Federica per vederci in piazza. Mio padre si era stranamente occupato di liberare casa da qualsiasi intralcio, compreso il cane, che era legatissimo a mia madre e che solitamente non si allontanava da lei. Insisteva che lo portassi con me, anche se non l’avevo mai fatto. Tra quando siamo usciti e il tardo pomeriggio ci sarà stato il riordino della cucina, la partita di calcio in televisione, un riposino. Qualcosa che avrei il diritto di ascoltare da mio padre, non dalla ricostruzione della stampa, dalla televisione, dal vociferare del paese».

Mi spiega Pasquale. Ricordo quando studiavo le carte del processo: gli citavo alcuni passaggi degli interrogatori del padre e lui si sentiva smarrito. Era la sua vita, eppure gli risultava estranea. Pasquale, diventato orfano di femminicidio, è andato ad abitare con la famiglia paterna, che ha criticato la madre ritenendola l’artefice della rovina del marito geloso. È stato anche obbligato a diverse visite in carcere al padre, che dopo 13 anni ha usufruito dello sconto di pena per buona condotta e oggi è libero.
Inoltre per lo Stato assente era del padre il diritto di scegliere se e dove spostare la tomba della moglie, malgrado fosse il suo assassino. «Ancora padrone nella vita e nella morte di mia madre» dice Pasquale. Dopo una lunga battaglia legale, sostenuta solo con le proprie forze economiche, i figli sono riusciti a ottenere dal padre la firma per spostare il corpo della mamma ed esaudire finalmente un suo desiderio.

Pasquale Guadagno, orfano di femminidio
Pasquale Guadagno. Ph. Tiziana Moccia

Accettare l’impensabile

«Per anni ho provato a cercare una logica al delitto compiuto da mio padre, qualcosa che potesse accomunare la mia storia a quella di tanti sopravvissuti che hanno avuto distrutta la famiglia e, dunque, la vita. Una malattia mentale, una manipolazione, una setta, una cospirazione, un ricatto, legittima difesa. In testa mi è passato di tutto, in cerca di quel dettaglio che mi convincesse che doveva per forza succedere. A ogni nuovo caso di cronaca scorrevo le notizie in cerca di punti in comune che mi permettessero di capire le motivazioni dietro la violenza. E vagliavo anche le differenze che rendessero il mio caso particolare, e quindi la mia esistenza meno sfortunata, perché quando non sei l’unico ti senti meno solo, ma anche uno dei tanti di cui ci si può dimenticare. Per un periodo sono stato molto attratto dai casi di cronaca nera. Non è servito a nulla».

Racconta Pasquale. «No, non c’è mai un motivo per uccidere. E quando scopri che non c’è una spiegazione, ti senti improvvisamente più solo, tu che sei uno di loro. Sai che può capitare di tutto – ti è già capitato l’impensabile: tuo padre ha ucciso tua madre – e sei pronto ad affrontarlo. Sai che nessuno ti salverà. Io sono stato il figlio dell’assassino e pure peggio: Pasquale, l’orfano di uxoricidio. E, per quanto abbia odiato mio padre, ho passato il resto della mia vita a sperare che un giorno, in carcere o fuori, potesse rivelarmi un segreto, qualcosa che mi permettesse di comprendere come si possa uccidere un essere umano, una moglie, la madre dei tuoi figli.

Pasquale Guadagno: il mio momento per essere vivo

Come si possa privare due ragazzini del diritto di crescere in una famiglia e di imparare da un genitore come stare al mondo. Senza aver mai ricevuto da nostro padre alcuna spiegazione, ma neppure alcuna frase di perdono, siamo stati figli gettati nel mare con un’ancora legata al collo. Soli, in attesa di annegare. E invece eccoci qua, anche se per anni siamo sopravvissuti aspettando il giorno della nostra fine, immaginando che potesse arrivare da un momento all’altro. Siamo rimasti a galla, io e mia sorella, aggrappati l’uno all’altra come quando eravamo piccoli e ci addormentavamo mano nella mano, senza poterci abbandonare a un sonno sereno. Non siamo morti, ma nemmeno vivi».

«Come hai fatto, malgrado tutto, a essere così come sei?» gli chiedo spesso quando lo vedo in salotto giocare con i miei figli. «Così come?» mi risponde Pasquale, quasi stupito. «Così come sei». Pasquale è diventato adulto, con la schiena dritta, lavorando ogni giorno duramente senza aiuti. Ha aperto un suo bar, sogna ancora di perseguire altri obiettivi che merita senza doversi sentirsi in colpa. A chi ha un destino segnato dalla violenza sembra quasi proibito un riscatto o, peggio, la felicità. Invece questa è l’ora di essere vivi.