L’ora settimanale dei colloqui coi genitori oggi è stata fitta di appuntamenti. Da qui alla fine dell’anno sarà così tutte le volte.
Qualcuno cerca un confronto per un salvataggio in extremis dell’anno scolastico (e delle vacanze estive).
Molti di più sono quelli che intavolano discussioni appassionate sulla media dei voti (mai troppo alta) e soprattutto sui crediti scolastici che servono a ottenere un buon voto all’esame di stato: inevitabile parlino di tutte le ansie dei figli (e delle loro).
Raccontano una gamma variegata di situazioni: ragazzi che non mangiano quasi più e sviluppano sensi di inadeguatezza a 360 gradi anche fuori dal liceo; qualcuno dorme poco e si stacca dai libri a notte fonda o si alza all’alba per improbabili ripassi.
Chi litiga furiosamente coi genitori, chi sgomita per primeggiare e si perde per strada un bel rapporto coi compagni a cui non passa compiti, appunti e solidarietà, chi vive in castigo perenne o si auto-esilia dallo sport e dalle uscite con gli amici.
Ho visto ragazzine svenire in preda al panico prima della versione di greco, piangere disperate alla macchinetta del caffè per voti neanche così drammatici, abbonate all’abbraccio consolatorio di quelle vice-mamme che in liceo sono le bidelle.
Non è mai chiaro se l’ambizione sia l’imprinting con cui nascono certi ragazzi o se sia una tara degli adulti.
Il disagio da prestazione ha sicuramente a che fare con le tante richieste del sistema scolastico: a volte sono poco chiare, non finalizzate, addirittura scollegate tra loro.
Spesso i miei studenti mi dicono di sentirsi come scatoloni vuoti da riempire di nozioni; mi capita di vederli gestire un calendario appeso di fianco alla lavagna: lo compilano di scadenze, di appuntamenti con le verifiche scritte e orali. In mesi come questo non c’è più un giorno libero: si salvano (forse) le domeniche e le feste comandate.
Stamattina Sara, 18 anni compiuti da poco, scuoteva la testa dall’ultimo banco e non aveva nessuna fretta di gettarsi nella ressa di ragazzi che nell’intervallo affollano il bar: «Prof, abbiamo più compiti in classe che giorni di scuola disponibili per svolgerli».
Non basta programmare le interrogazioni, non basta l’impegno che nella mia scuola ci siamo assunti (non più di uno scritto al giorno, non più di due orali nella stessa mattinata): di fronte a Sara provo la sensazione che la scuola per loro sia un tritacarne di cui mi sento responsabile anche io. Certo: un banco di prova per il lavoro che li attende là fuori, per l’organizzazione che dovranno imparare a darsi; ma pur sempre un tritacarne.
I genitori hanno dal canto loro una quota pesante di responsabilità: vogliono figli performanti (quante volte sono inorridita a sentire questo tipo di aggettivazione, manco parlassero di pneumatici per un’auto da rally) a scuola e fuori da scuola, e quando le ‘performances’ scendono appena al di sotto delle loro aspettative, scaricano le colpe sul sistema-scuola.
Nel mezzo di questo cortocircuito stanno sempre loro, i ragazzi, che di volta in volta sono messi troppo sotto pressione o vengono troppo difesi: che misure dovrebbero prendere? Diminuisce il loro senso di responsabilità in parallelo alla crescita delle loro frustrazioni.
Naturalmente i “lazzaroni” (pigri, lavativi, furbetti, scansafatiche….) ci sono ancora, ma aumenta in modo allarmante il numero di alunni incapaci di accettare e gestire l’insuccesso, sia che si tratti di un incidente di percorso, sia che si tratti di un eventuale riorientamento. Sono tanti i giovanissimi che non si accontentano di essere bravi, che a qualunque costo vogliono essere i primi, come se tutto fosse un contest culinario o musicale con premio finale.
La pianificazione di un brillante curriculum universitario o di una carriera luminosa e di successo per qualcuno comincia appena finite le scuole medie: parte la corsa alle scuole prestigiose, ai voti eccellenti, crediti al top, l’ammissione alle facoltà più difficili e potenzialmente qualificanti. In alcune realtà la richiesta è elevatissima e da chi abbia origine questa ambizione forse poco importa.
Ma una cosa mi è quasi sempre chiara: tra le onde dell’ansia prestazionale che sento montare, naufraga la passione per ciò che si studia.
Vorrei che nei prossimi anni i miei studenti portassero con loro la follia d’amore raccontata da Ariosto, riletta da Calvino, nuovamente affabulata da Stefano Accorsi nei teatri di tutta Italia. Poi però mi gelano: «Prof, quanto ho preso in italiano?».