Secondo una recente indagine Istat, una donna su 3 di età compresa tra i 16 e i 70 anni sostiene di aver subìto molestie o una violenza sessuale. Un esercito di 6 milioni e 788 mila potenziali bugiarde, almeno a sentire i tanti che, di fronte a ogni storia di abusi, sentono puzza di bruciato. «Ma le denunce false sono pochissime, mentre i casi di molestatori che restano impuniti sono diverse migliaia» avverte Tatiana Biagioni, avvocata che da 15 anni si occupa di discriminazioni sul posto di lavoro. «Il problema è che nonostante il fiume di rivelazioni degli ultimi mesi, molte vittime non escono ancora allo scoperto, sopraffatte dall’angoscia di non essere credute, dal senso di colpa, dalla paura di essere licenziate. Perché nella nostra società chi denuncia è marchiato per sempre, mentre chi molesta passa per uno in vena di goliardate». Basta pensare al caso di “victim blaming” delle studentesse americane violentate a Firenze. Il New York Times ha analizzato e smontato le cinque obiezioni che vengono rivolte più spesso in America a chi denuncia di aver subìto un abuso. E purtroppo sono le stesse che devono affrontare anche le donne italiane. Come ci raccontano qui gli esperti che si occupano ogni giorno di violenze e molestie.
Non sembra una vittima
«Una donna che trova la forza di accusare un uomo, a maggior ragione se si mostra combattiva, va contro il classico stereotipo paternalistico secondo cui la femmina è sensibile, fragile e incapace di difendersi. Viene considerata quasi un bluff, e quindi figurarsi se dice la verità» spiega Chiara Volpato, psicologa sociale dell’Università Bicocca di Milano e autrice di Psicologia del maschilismo (Laterza). Una perplessità che spesso diventa un indice puntato se la vittima si presenta ben curata, lontana dal cliché di una persona abusata. «Alcuni pensano che l’aspetto sia il riflesso dell’anima, come se un filo di rossetto fosse una prova di serenità» aggiunge Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente e socia fondatrice dell’Associazione Nazionale Volontarie Telefono Rosa. «Si sbagliano: ci sono donne che appaiono perfette, ma sono morte dentro. Inoltre, chi subisce una violenza spesso riparte cercando di recuperare un po’ di contegno: è un modo per curare le ferite più superficiali, legate all’immagine di sé, per poi dedicarsi a quelle più profonde». Spinte dalla voglia di rivalsa, alcune si spingono oltre, fino a rivendicare giustizia sui social. «Altro comportamento che non deve meravigliare» assicura l’avvocata Tatiana Biagioni. «È tipico dei nostri tempi, soprattutto da parte delle più giovani. Anzi, per molte ragazze è un modo per recuperare terreno a livello sociale e sentirsi di nuovo importanti».
Non ha denunciato subito
«Sono stata stuprata?». Stando ai dati americani, è questa la prima domanda che le donne rivolgono agli operatori delle linee antiviolenza. «Spesso non lo sanno nemmeno loro, perché c’è ancora una certa ignoranza giuridica su che cosa siano una molestia e una violenza» dice Tatiana Biagioni, avvocata. Altre volte le vittime sono consapevoli ma brancolano in una nebbia di vergogna e sensi di colpa. «Rialzare la testa e acquisire consapevolezza dell’accaduto richiede tempo, perfino anni: di certo, molte volte non bastano i 6 mesi imposti dalla legge italiana per denunciare» dice Massimo Donati, psicologo. «Anche perché molti uomini manipolano in modo consapevole la mente della vittima per aumentarne il disorientamento: sostengono che era solo uno scherzo, fingono che non sia accaduto niente oppure le fanno credere di aver ricevuto segnali di complicità». Così facendo, giocano su reazioni che affondano nell’infanzia di molte donne, nei tanti “mi raccomando” impartiti dagli educatori. «Apparteniamo a una cultura che ci ha invitato a stare attente a non esporci troppo» conferma Chiara Volpato, psicologa. «L’avvertimento sotteso è sempre stato: “Se accade qualcosa, in parte è colpa tua”. Per questo, ci portiamo dietro da sempre la paura di essere state noi le prime a fare qualcosa di male. Liberarci da questo senso di colpa, soprattutto dopo un’aggressione o una molestia, è un processo laborioso». Non deve stupire, dunque, l’ondata di accuse associate al movimento #MeToo (è successo anche a me)? «Certo che no» risponde Tatiana Biagioni, avvocata. «Le donne denunciano quando il clima sociale cambia e i pregiudizi si attenuano. Oppure se trovano qualcuno disposto ad ascoltarle e supportarle».
Nel racconto ci sono incongruenze
Uno studio della Michigan State University ha scoperto che i racconti delle vittime si assomigliano tutti. Frammentati, senza un ordine preciso, come brevi appunti buttati qua e là su un tavolo: il fiato del predatore sulla pelle, il nodo alla gola, l’immagine di una porta troppo lontana. Eppure, spesso basta una data sbagliata perché le ricostruzioni delle donne vengano messe in dubbio. «Purtroppo accade non solo nelle chiacchiere delle persone comuni, ma anche nelle aule dei tribunali» dice Chiara Volpato, psicologa. «Ma rendere una testimonianza è difficile, a maggior ragione quando si è coinvolti in prima persona. E poi mi chiedo: come mai a chi subisce una rapina non viene richiesta la stessa precisione? È la conferma che nei confronti delle donne che denunciano c’è una diffidenza di fondo». La memoria, poi, sbiadisce con il tempo. A questo si aggiunge il cortocircuito che un trauma di questo tipo, inevitabilmente, porta con sé. «Durante una violenza ci può essere una parziale disattivazione della corteccia cerebrale: l’area del cervello che, governando l’attenzione, aiuta a memorizzare quanto accade» spiega Massimo Donati, psicologo e psicoterapeuta. «Dunque non si può pretendere che una persona registri uno stupro con la stessa accuratezza che usa per un tamponamento d’auto. Senza dimenticare lo shock o il disturbo post traumatico da stress: fenomeni che confondono ancora di più i tasselli, sotterrandone alcuni negli abissi dell’inconscio. Chi osserva dall’esterno non capisce, ma la scienza non ha dubbi: sono tutte strategie della mente per difendersi dall’orrore».
Non si è opposta alla violenza
A parole, molte persone sono bravissime a difendersi: «Se fossi stato al posto di quella donna, gli avrei tirato un calcio in mezzo alle gambe». E quel che è peggio, con un retro pensiero di fondo: «Se non lo ha fatto, significa che non le dispiaceva». «È la classica riflessione che nasce dal “positivity bias”, il pregiudizio positivo che molti individui, soprattutto quelli con un’alta autostima, hanno di se stessi» dice Chiara Volpato, psicologa. «In pratica, pensano che in una data situazione, si sarebbero comportati in modo migliore rispetto a un altro. Ma hanno davvero provato a calarsi nei panni della malcapitata? Perché finché non ti ritrovi con un uomo addosso, non sai come reagirai». Forse si comporterebbero come la maggior parte delle prede che si ritrovano inermi, paralizzate, capaci solo di pensare: «Speriamo che finisca presto». «Che non significa certo essere consenzienti o, peggio ancora, divertirsi» precisa Massimo Donati, psicologo, psicoterapeuta e direttore del Centro Interdisciplinare di Psicoterapia Analitica di Livorno. «Piuttosto, quando si subisce una forte violenza (anche di tipo psicologico), nella mente si inibisce la classica risposta “fight or flight”, combatti o fuggi. Questo spiega la passività di molte donne, che in realtà è una forma di autotutela dalla brutalità umana. Chi subisce un’aggressione, infatti, dissocia la mente dal corpo. È un tentativo di prendere le distanze da quell’esperienza così traumatica, di non registrare le ferite».
È rimasta amica del suo aggressore
È l’accusa rivolta a molte attrici fotografate per anni accanto al produttore di Hollywood Harvey Weinstein. «Ma quando l’orco è qualcuno che conosciamo bene, come un parente o un superiore, la posizione della donna si complica» spiega Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente dell’Associazione Nazionale Volontarie Telefono Rosa. «Il rapporto di fiducia la spinge all’incredulità, la confonde e la mette in una posizione di debolezza psicologica, rendendola incapace di spezzare il legame con quella figura così ambigua». Maggiore è la posta in gioco, come accade nella sfera professionale, più la violenza diventa anche psicologica. «Chi molesta esercita un potere sulla vittima, a cominciare dalla classica minaccia: “Se parli, ti distruggo”. A quelli che accusano le donne che non sbattono la porta, ricordo che il lavoro è anche realizzazione di sé» dice l’avvocata Tatiana Biagioni. Non basta parlare di contratti e carriera per comprendere lo smarrimento che subisce chi si trova in questa situazione e la malsana relazione che finisce per unire la preda al suo carnefice. «Ci sono donne che dopo essere state aggredite, sviluppano un attaccamento nei confronti del loro aguzzino» dice lo psicologo Massimo Donati. «Arrivano a pensare: “Poteva farmi ancora più del male, invece me lo ha risparmiato”. Così finiscono per provare un senso di gratitudine che mette a tacere l’odio».
È violenza sessuale anche senza stupro
Per la legge c’è un reato di violenza molto più spesso di quanto pensiamo. Semplificare è difficile, ma ci proviamo con l’avvocata Tatiana Biagioni. «La linea di confine è sempre la libertà di autodeterminazione: se una persona subisce un comportamento indesiderato, siamo di fronte a una violenza» dice l’esperta. Che avverte: «Secondo la Corte di Cassazione, non serve lo stupro: è violenza anche essere toccate (pure sopra i vestiti) o subire lo strofinamento di una parte intima. E non è indispensabile nemmeno il contatto fisico: basta che qualcuno, per eccitarsi o soddisfare un suo istinto sessuale, metta in pericolo la nostra libertà».
I numeri dalla parte delle donne
Secondo una ricerca dell’Home Office inglese, solo il 4 per cento delle violenze sessuali riportate alla polizia britannica sono false. Una percentuale che si allarga di poco (tra il 2 e il 6 per cento) in Europa e negli Stati Uniti. Pochissime, dunque. E in linea con la percentuale di denunce false che riguardano altri crimini.