“I Pfas, integrandosi nella membrana degli spermatozoi alterano i meccanismi che regolano la capacità fecondante, sia naturale che in vitro, e possono trasmettersi per tre generazioni“. Così il professor Carlo Foresta, endocrinologo tra i massimi esperti di fertilità, ha lanciato un allarme in occasione del congresso di Medicina della riproduzione, a Padova, uno dei territori nei quali il problema dell’inquinamento da Pfas è maggiormente sentito. La città, infatti, fa parte del cosiddetto “triangolo rosso” veneto, insieme a Vicenza e Verona, dove si trova un’alta concentrazione di questi inquinanti a causa della presenza di una vecchia azienda dismessa, la Miteni, e al centro anche di un caso giudiziario.
Ma tracce di Pfas si trovano anche in Piemonte, Lombardia ed Emilia Romagna e non solo nell’acqua. Uno studio condotto in Danimarca, intanto, ha confermato la pericolosità di queste sostante sulle donne in gravidanza.
Lo studio danese su donne in gravidanza: cosa è emerso
La ricerca ha analizzato oltre 1.000 campioni di sangue di donne al primo trimestre di gravidanza, verificando 18 anni dopo le caratteristiche dello sperma dei figli nati da quelle madri. Gli esperti hanno scoperto una scarsa motilità e bassa concentrazione di spermatozoi, che sarebbe frutto proprio dell’azione degli Pfas a cui erano state esposte le madri in gestazione. Le conclusioni, che confermano i risultati di un precedente studio del professor Foresta, arrivano dopo un lungo iter giudiziario che ha riguardato la ex Miteni in Veneto. Ora la fabbrica, venduta a una società di Mumbai in India, è in fase di smantellamento, ma le tracce di inquinanti, finite nelle falde acquifere, sono state riscontrate nella popolazione. Secondo i carabinieri del Nucleo operativo ecologico, che hanno partecipato all’inchiesta penale, ci sarebbero stati ritardi nell’intervento delle autorità regionali nei controlli, ma la Procura, che pure indaga sulle responsabilità dei vecchi proprietari dell’azienda, ha chiesto e ottenuto l’archiviazione dell’indagine sugli Enti di controllo della Regione per mancata sorveglianza.
Il tutto mentre qualche tempo fa l’Istituto Superiore di Sanità aveva indicato gli alimenti con la più alta concentrazione di sostanze inquinanti, che comprendono anche uova, latte e pesce, non solo in Veneto.
Gli alimenti a rischio
I Pfas non si trovano solo nell’acqua. Secondo le analisi appena condotte dall’Istituto Superiore di Sanità i Pfas si “nascondono” soprattutto in latte, uova e pesce prodotti localmente, il che rende queste sostanze chimiche (tecnicamente perfluoroalchiliche) ancora più pericolose, soprattutto per la popolazione della “zona rossa” del Veneto. Il rischio di esposizione a questi composti chimici è di interferenze a livello endocrino, con variazioni del metabolismo riscontrate soprattutto nei bambini.
Da tempo la popolazione si batte per avere chiarezza e a ottobre ci sarà la prima udienza per il rinvio a giudizio di 10 manager della ex Miteni, azienda chimica di Trissino, nel veronese, dove venivano prodotti questi composti. Ad aggravare la situazione c’è il fatto che per alcuni tipi di Pfas l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (Efsa) non ha ancora stabilito dosi giornaliere o settimanali tollerabili.
Dove nascono i Pfas
Finora l’unica certezza era rappresentata dal fatto che i composti chimici (usati soprattutto nei rivestimenti impermeabili di smartphone, carta da pizza o zincatura delle padelle antiaderenti) potevano entrare nell’organismo umano tramite l’acqua. Per questo la maggior parte della popolazione della “zona rossa” veneta non beve quella di rubinetto e le mamme del comitato No Pfas si sono battute perché nelle mense scolastiche sia servita solo acqua in bottiglia.
Perché si trovano nel latte
Il report dell’Iss ora spiega che il Pfoa (acido perfluoottanoico, uno dei Pfas) è presente in quantità 5,3 volte oltre i limiti di legge nell’acqua e, in particolare, 25 per gli adulti e 5,4 nei bambini. Proprio nei più piccoli, però, le analisi dell’Iss hanno evidenziato che il latte rappresenta un alimento ancora più contaminato, insieme a uova e pesce. Il che è facilmente spiegabile con il fatto che i prodotti ittici locali si trovano in acque contaminate e le uova provengono da allevamenti della zona, dove la presenza di Pfas è arrivata a livello di falde acquifere. Lo stesso vale per il latte vaccino, proveniente da mucche che si abbeverano da acque contaminate. Anche in agricoltura sono usati fanghi fertilizzanti che possono avere tracce inquinanti.
“I nostri figli sono già pesantemente contaminati e non possiamo tollerare che assumano nemmeno quantità minime di questi interferenti endocrini potenzialmente cancerogeni che, pur essendo prodotti dagli anni ’70, vengono vergognosamente ancora chiamati ‘inquinanti emergenti’” ci spiegava due anni fa Michela Zamboni del comitato Mamme No Pfas.
Le analisi escludono le fasce più deboli
“Nell’analisi finale, l’Iss valuta anche l’esposizione dei bambini dai 3 ai 10 anni. Il piano di sorveglianza avviato dalla Regione Veneto, invece, esegue analisi del sangue su bambini dai 9 anni in su. Inoltre, esclude anche un’altra fascia di popolazione più debole, gli over 65, che hanno maggior probabilità di avere già alcune malattie correlabili con i Pfas, come il tumore al rene. Le fasce più a rischio quindi non entreranno nelle statistiche finali” denunciava Zamboni, che si chiede perché “non tutti hanno diritto ad avere accesso alle analisi del sangue per la ricerca dei Pfas. Non è infatti possibile effettuare analisi, nemmeno a pagamento, se non si rientra nell’elenco dei residenti in “area rossa” nati tra il 1951 e il 2014. E così ci sono molte persone, in particolare quelle nate prima del 1951, che presentano patologie correlabili ai Pfas che però non possono fare alcuna analisi sulla presenza di queste sostanze nel sangue” diceva Zamboni.
A ottobre il processo ai responsabili
I sospetti di inquinamento da Pfas in Veneto risalgono ai primi anni 2000. Solo ora, però, si è arrivati al processo. La prima udienza preliminare c’è stata due anni fa, con la richiesta di rinvio a giudizio 10 manager della Miteni, l’azienda produttrice di Pfas, fallita nel 2018. Le mamme Pfas si sono costituite parte civile per essere stati esposte, come popolazione, per anni ai Pfas e perché queste sostanze si trovano ormai nel loro “sangue e in quello dei nostri figli, con tutte le preoccupazioni legate alle malattie che possono insorgere”.
La fabbrica va dismessa ma mancano i soldi
I costi di bonifica sono stimati in 5,5 milioni di euro per smantellare la fabbrica e 12-18 milioni di euro per intervenire sull’intera area. Le cifre, note fin dal 2008 a Mitsubishi (proprietaria della Miteni), sono ora sostenute dalla Icig, la multinazionale indiana che ha acquisito la proprietà nel 2018 al prezzo simbolico di 1 euro. Il curatore fallimentare ha spiegato che sono state condotte opere di messa in sicurezza urgente (svuotando serbatoi di sostanze altamente tossiche come acido nitrico, acido fluoridrico e cloro). “Ci sono già 4 relazioni di agenzie ambientali incaricate negli anni da Miteni che testimoniano come il terreno sottostante l’azienda sia pesantemente contaminato e, trovandosi nella zona della falda, l’inquinamento viene continuamente portato a valle. La Icig ha tempo fino a fine 2020 per smantellare gli impianti, ma fino ad allora l’avvio della vera bonifica è impensabile” spiegava ancora Zamboni, mentre nel frattempo la Regione Veneto ha proseguito con le analisi.