In questi giorni si è sentito parlare più volte di nucleare: prima per l’ipotetico scenario di una guerra nucleare in seguito all’offensiva militare russa in Ucraina, poi per la presa della centrale di Zaporizhzhia da parte proprio delle truppe di Mosca, che l’hanno occupata nella notte tra il 3 e il 4 marzo. L’ultimo allarme riguarda Chernobyl, dove sarebbe stata staccata la rete elettrica «a causa dei combattimenti nell’area», come comunicato dalla società ucraina Npc Ukrenergo. Ma l’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, ha poi rassicurato in un comunicato di «non osservare particolari criticità», perché la centrale dispone di «sufficiente acqua per il raffreddamento» del materiale nucleare esausto». La notizia, però, è arrivata quasi in contemporanea con il rinnovo del Piano nazionale per la gestione delle emergenze radiologiche nucleari, firmato dal capo della Protezione civile, Fabrizio Curcio.
A cosa serve il piano, che rischi corre l’Italia e cosa prevede? Lo abbiamo chiesto a Walter Ambrosini, Professore ordinario di impianti nucleari presso l’Università di Pisa e già presidente dell’European Nuclear Education Network (ENEN).
Dobbiamo preoccuparci per Chernobyl?
Secondo l’Aiea non ci sono rischi di rilascio di radiazioni dalla ex centrale di Chernobyl, inattiva da tempo: dei quattro reattori che aveva, i tre non esplosi nell’incidente del 1986 sono stati spenti alla fine degli anni ‘90, sebbene l’integrità rimanga una condizione imprescindibile per la sicurezza nucleare della regione. «L’allerta è motivata dal fatto che le centrali nucleari devono essere refrigerate anche per molto tempo dopo lo spegnimento: non è sufficiente disattivarle come le stufe di casa, ma occorre che rimangano in funzione le pompe di raffreddamento per evitare un surriscaldamento del nocciolo. Il rischio non è quello di un’esplosione, ma di un danneggiamento del nocciolo con possibile fuoriuscita di radiazioni» spiega il professor Ambrosini. Attenzione, però, agli allarmismi riguardo alle centrali in Ucraina, come quello a Zaporizhzhia: «Nei giorni scorsi si era parlato di un rischio 10 volte maggiore rispetto a quello di Chernobyl per le dimensioni della centrale, che è la più grande d’Europa. In realtà il numero di reattori non c’entra: a Fukushima, per esempio, se ne sono danneggiati 3, ma le conseguenze in termini di rilasci sono state 10 volte più limitate di quelle di Chernobyl mentre quelle radiologiche sono state nulle» chiarisce l’esperto. Sta di fatto che la preoccupazione per le centrali nucleari resta e si sommano alla notizia dell’aggiornamento, in Italia, del Piano nazionale per la gestione delle emergenze radiologiche nucleari.
Il rinnovo del piano delle emergenze radiologiche: perché?
La concomitanza non poteva non destare allarme, ma bisogna capire di cosa si tratta: si tratta di una serie di misure di precauzione previste in caso di incidente a un impianto, che coinvolgerebbero da vicino la popolazione che vive nei pressi di una centrale: «In particolare la gestione delle emergenze esterne rappresenta la 5° e ultima di quella che in gergo tecnico è chiamata barriera logica del principio della Difesa Profondità (Defence in Depth). Il primo livello, infatti, è rappresentato dalle misure ingegneristiche che minimizzano al massimo i rischi per la sicurezza di un impianto; il secondo è costituito dagli interventi di salvaguardia, sempre ingegneristici, per fronteggiare un eventuale malfuzionamento; il terzo prevede le precauzioni in caso di malfunzionamento a fronte di incidenti di base di progetto e il 4° la gestione di un incidente severo, ovvero il danneggiamento del nocciolo» spiega Ambrosini. L’ultimo non ha più a che fare con l’ingegneria, ma con gli interventi di sanità pubblica e protezione civile: «Sono precauzioni che occorre prevedere, esattamente come bisogna avere il freno di emergenza quando si guida un veicolo, o un salvagente quando si sale su un’imbarcazione: si spera di non doverli mai usare, ma in caso di necessità devono esserci, perché il rischio zero non esiste mai» spiega l’ingegnere nucleare.
Quando potrebbe servire il piano?
Va però anche detto che non scatterebbe in caso di qualsiasi incidente nucleare: ci sono variabili fondamentali come la distanza geografica dalla centrale, la quantità di radiazioni emesse, il diverso rischio di esposizione della popolazione, ecc.: «Lo iodio radioattivo, che è una delle sostanze che si possono sprigionare in caso di incidente, ha un tempo di decadimento di 8 giorni e mezzo: significa che dopo questa finestra temporale si trasforma in altri prodotti molto meno pericolosi. Inoltre il trasporto a grande distanza fa sì che le concentrazioni si disperdano in maniera naturale. Normalmente, quindi, le precauzioni del piano si applicano solo a chi è vicino a una centrale danneggiata. Serve ed è indispensabile che ci siano, esattamente come le istruzioni in caso di ammaraggio illustrate dalle hostess in aereo: se non ci fossero si violerebbero i protocolli di sicurezza» chiarisce l’esperto.
Che misure si prenderebbero?
Nel dettaglio il piano, presente sul sito della Protezione civile, prevede tre fasi ed è tarato su vari tipi di incidente con differenze proprio in base alla vicinanza: entro 200 km dai confini nazionali, oltre i 200 km o addirittura in territorio extraeuropeo. Ecco perché si va dalla raccomandazione di rimanere al chiuso, che dovrebbe essere comunicata alla popolazione dalla Protezione civile, fino al «blocco cautelativo del consumo di alimenti e mangimi prodotti localmente (verdure fresche, frutta, carne, latte), blocco della circolazione stradale, misure a tutela del patrimonio agricolo e zootecnico», di concerto con le autorità sanitarie. Tra le altre misure si prevedono anche istruzioni specifiche alle scuole e relative agli approvvigionamenti, nei casi più gravi, qualora fosse necessaria una chiusura. Un capitolo a sé merita, invece, la iodoprofilassi, di cui si è molto parlato nei giorni scorsi.
Le compresse allo iodio servirebbero? Per chi?
Nel documento si definisce la iodoprofilassi, «una efficace misura di intervento per la protezione della tiroide, inibendo o riducendo l’assorbimento di iodio radioattivo, nei gruppi sensibili della popolazione». Si indica anche che «il periodo ottimale di somministrazione di iodio stabile è meno di 24 ore prima e fino a due ore dopo l’inizio previsto dell’esposizione. Risulta ancora ragionevole somministrare lo iodio stabile fino a otto ore dopo l’inizio stimato dell’esposizione. Da evidenziare che somministrare lo iodio stabile dopo le 24 ore successive all’esposizione può causare più danni che benefici». Insomma, lo iodio non va assunto preventivamente né in maniera autonoma, perché sarebbero le autorità sanitarie a comunicare chi, quando e quanto iodio assumere: «La misura della iodoprofilassi – si legge nel piano – è quindi prevista per le classi di età 0-17 anni, 18-40 anni e per le donne in stato di gravidanza e allattamento. Il ministro della Salute può decidere l’attivazione delle procedure per la distribuzione di iodio stabile nelle aree interessate».
Perché il piano è stato aggiornato adesso?
Il rinnovo del piano proprio adesso, insieme alla notizia di una verifica delle scorte di ioduro di potassio (lo iodio non radioattivo, contenuto nei farmaci), ha messo in allarme molti: «Il rischio zero, come accennato, non esiste, ma non dimentichiamo che questi piani vanno aggiornati periodicamente e non è escluso che quanto accade in Ucraina abbia sollecitato una revisione. D’altro canto nessuno, prima dell’11 settembre, poteva immaginare quanto avvenuto alle Torri Gemelle. È giusto essere preparati a ogni scenario, ma senza dimenticare la quotidianità: la Commissione europea ha ricordato anche di recente che ogni anno muoiono circa 500mila persone per la cattiva qualità dell’aria a causa delle varie sorgenti di inquinamento, per esempio le emissioni delle centrali a combustibile fossile o del traffico. Si tratta di numeri su morti che avvengono ogni anno e che fanno impallidire le peggiori previsioni sulle conseguenze di Chernobyl: le morti dirette accertate a causa dell’incidente del 1986 sono state una sessantina e hanno riguardato solo i liquidatori che hanno condizionato la centrale dopo l’incidente» spiega l’esperto. Certo, non vanno dimenticati gli effetti cosiddetti latenti, a lungo termine, come il rischio di tumori o leucemie, ma – come ricorda ancora Ambrosini – «Quelli riportati dalla Commissione sono rischi che spesso sottostimiamo e accettiamo, perché spaventano meno dell’ipotesi di un eventuale incidente nucleare, anche se sono ben più reali delle nostre paure» conclude l’esperto.