I primi a dotarsi di barriere di plastica trasparente sono stati i supermercati, ossia gli unici negozi aperti durante il lockdown. Poi è stata la volta di banche, negozi, bar, ristoranti e persino scuole, per poter tornare a una didattica in presenza, garantendo la sicurezza pur in mancanza degli spazi necessari al distanziamento dotando le aule di cabine per ogni banco. Oltre ad avere un costo enorme, è davvero una misura necessaria? Chi la pagherebbe? E una volta dismessi, i pannelli di questo materiale plastico, che fine farebbero?
Il boom in pandemia
Mentre l’economia arranca a causa degli effetti delle chiusure durante la pandemia e per la riduzione, ad esempio, di clienti nei locali pubblici a causa del distanziamento, c’è un settore che ha registrato un vero e proprio boom fin dalle prime settimane di emergenza sanitaria: quello della produzione di barriere di plaxiglas.
Lo chiamiamo tutti plexiglas, ma si tratta del nome commerciale entrato ormai nell’uso comune e nei vocabolari di una materia plastica. Il nome scientifico è polimetilmetacrilato, abbreviato in PMMA. Sviluppato negli anni ’30 in Germania come Plexiglas, ha oggi tanti altri nomi commerciali: Perspex, Lucite, Vitroflex, Acrivill, Perclax, Limacryl, Crylux, Oroglas, Setacryl, Altuglas.
Questa materia plastica è dalla sua nascita molto apprezzata perché trasparente (anche più del vetro), resistente, leggera, flessibile, può anche filtrare i raggi UV ed essere colorata. Ma a seguito dell’epidemia di coronavirus è comparsa ovunque, a partire dagli ospedali dove è impiegata in lastre ma anche per le visiere facciali. Poi nei supermercati e negli uffici, laddove non erano già presenti barriere divisorie in vetro, come alle Poste. Si è persino pensato di realizzare cabine per schermare i banchi di scuola.
Ma è davvero necessaria? «Sì, ovunque non ci sia la possibilità di rispettare il distanziamento. A prescindere dall’andamento della pandemia, è uno dei presidi insieme al lavaggio delle mani e all’uso delle mascherine» dice Carlo Signorelli, docente di Igiene e sanità pubblica all’Università Vita Salute-San Raffaele di Milano. L’idea di introdurla a scuola ha scatenato polemiche, soprattutto sulla reale utilità: «Basterebbe osservare uno di questi pannelli negli uffici pubblici o nei locali per rendersi conto di quanto si sporcano facilmente: si tratta delle goccioline che, se emesse da una persona positiva, potrebbero contagiare chi gli sta vicino. L’impiego, quindi, ci permette di ridurre i rischi» spiega ancora l’esperto.
Barriere di plastica ovunque
Di fronte alla crescita di domanda, è aumentata anche la
produzione: secondo PlasticEurope Italia, l’associazione dei produttori di
materie plastiche che raggruppa 50 imprese del settore all’interno di
Federchimica, il comparto fatturava 8 miliardi all’anno prima della pandemia,
dando lavoro a 7mila dipendenti e assorbendo circa il 90% del mercato dei
derivati plastici. Di fronte a un’impennata delle richieste, non solo non ci
sono state riduzioni o tagli al personale come invece accaduto ad altri
settori, ma si è registrato un incremento e riconversione nei processi
produttivi.
Dagli oblò degli aerei alle visiere dei medici
Oltre che per i pannelli negli esercizi commerciali, il plexiglas (o PMMA in uno dei suoi altri nomi) è usato oggi per le visiere di dentisti e medici. Fino a febbraio scorso lo si poteva trovare anche nelle barriere antirumore lungo autostrade e ferrovie, in molti prodotti di arredo e design, negli oblò degli aerei (tra due strati di vetro) o negli allestimenti di vetrine. «Sicuramente l’emergenza Covid-19 ha fatto aumentare la richiesta, ma si è trattato soprattutto di riconvertire le produzioni su un’unica tipologia di prodotto con determinate misure o spessori, come i 5 millimetri richiesti per i pannelli parafiato che si trovano oggi nei supermercati» spiega Michele Chiapparini, Sales Area Manager di Altuglas International, azienda del gruppo Arkema, multinazionale francese del settore delle materie plastiche. A Rho, in provincia di Milano, si trova l’unico dei 7 siti produttivi di Arkema in Italia dedicato al plexiglas. «Ci siamo trovati richieste anche di piccoli dettaglianti, titolari di negozi o hotel che avevano bisogno di barriere in tempi rapidi per poter riaprire le attività. La filiera, che normalmente è fatta di un produttore, un distributore e un trasformatore (che taglia il prodotto finito a seconda delle necessità) si è accorciata». E i prezzi? «Le materie prime non sono mai mancate e il mercato non ha registrato impennate nei prezzi. Qualche rincaro può esserci stato a livello di distributori o tagliatori, anche per compensare il calo di richieste di altri materiali» spiega Chiapparini.
Dove e chi lo produce in Italia
Ironia della sorte, diverse aziende che producono barriere in plastica si trovano in quella stessa “zona rossa” che ha sofferto maggiormente per l’ondata di contagi: la Tre G, ad esempio, si trova a Guardamiglio in provincia di Lodi, dove si è registrato il primo focolaio di Covid-19. «In Italia ci sono solo 4 o 5 impianti, che invece sono più numerosi nel nord Europa, come in Danimarca, Germania o in Francia. Nel nostro Paese, invece, ci sono eccellenze come piccoli produttori di materiali speciali (colorati, con effetti particolari o per usi specifici come quelli delle piscine, con spessori anche di 200/300 mm). C’è anche l’unico produttore di Plexiglas green completamente riciclato. Il resto del materiale è importato. Al momento come Arkema siamo al 100% della produzione in tutti gli stabilimenti europei, dopo un periodo precedente all’epidemia nel quale c’era stato un generale rallentamento ovunque» spiega Chiapparini».
Dovremo convivere con il plexiglas?
«Confidiamo che dopo un boom iniziale ci sia un assestamento della domanda, ma è difficile fare previsioni. Pensavamo che le richieste aumentassero anche da parte dei ristoranti, ma in realtà l’idea di barriere intorno ai tavoli è tramontata a favore di un maggior distanziamento. Lo stesso vale per la scuola, dove si era ventilata l’idea di pannelli intorno ai banchi» spiega il manager di Altuglass International. Il progetto pare tramontato anche a fronte dei costi: «Se anche ci si fossimo limitati alle scuole primarie e secondarie di primo grado, dunque fino alla terza media, la stima dei costi sarebbe stata elevatissima. Ogni barriera costa circa 40 euro più IVA, quindi circa 50 euro. Considerando una media di 20 studenti a classe il costo di circa 1.000 euro che moltiplicato per 300mila classi in Italia (comprese quelle delle paritarie) arriverebbero a 300 milioni. Se poi avessimo dovuto prevederle anche alle superiori, il costo sarebbe lievitato ulteriormente» spiega Alessandro Giuliani, direttore de La Tecnica della Scuola.
Ogni quanto vanno cambiate le barriere?
«Per molti usi è certificato per diversi mesi, ma può durare anni, se una lastra è tenuta bene, stoccata nel posto giusto o non viene piegata: dipende dall’uso e dalle modalità di impiego, come dimostrano le barriere antirumore stradali e ferroviarie – spiega Chiapparini – Potrebbe essere necessario sostituire materiali rovinati, ci aspettiamo un cosiddetto after market, ma molto dipenderà anche dall’andamento della pandemia e dalle scelte dei singoli esercenti, perché il materiale di per sé ha una vita potenzialmente lunga».
Come si smaltiscono?
«A meno di un progetto specifico, che al momento non c’è, questo materiale non viene riciclato. In Italia non si ricicla tutta la plastica, ma solo gli imballaggi. Questo accade già, ad esempio, anche con alcuni giocattoli, come molte bambole: nonostante siano al 100% in PVC, dunque un materiale di per sé riciclabile, finiscono nell’indifferenziato perché non sono imballaggi», spiega Eva Alessi, Responsabile del Programma Consumi sostenibili del WWF. Il plexiglas viene smaltito come indifferenziato, nella frazione secca. In quantità maggiori di quelle domestiche si possono chiamare ditte specializzate del conferimento, al costo di circa 35 euro al quintale oltre a una tariffa fissa o a chilometro per il trasporto. In Europa il primo (e unico) impianto di riciclo è in Austria, a Gramatneusied, dove l’MMA, ossia il metacrilato di metile (la molecola principale che costituisce il plexiglas) è restituito come nuovo, nella sua forma pura al 99%. «Oggi in Italia manca chi recupera gli scarti di lavorazione o il prodotto a fine vita, dopo che per esempio il negozio ha smantellato la sua insegna o espositore. Diventa un rifiuto indifferenziato, anche se molte aziende stanno lavorando al suo riciclo futuro» Ma è pericoloso per la salute? «È un polimero che, una volta realizzato, non rilascia fumi o vapori. Inquina in quanto tale, come materiale plastico se abbandonato nell’ambiente, ma di per sé è pressoché inerte» conclude Michele Chiapparini.