In un paese di pochi abitanti, dove ogni bambino ha al massimo un paio di coetanei, la scuola primaria ha spesso un’unica classe con alunni dai 6 ai 10 anni che condividono la stessa insegnante. Così studiano da soli o si correggono i compiti a vicenda. Svantaggiati? No: innovativi. Se un tempo le pluriclassi, tipiche delle scuole marginali, erano considerate realtà di serie B, adesso sono viste come laboratori di sperimentazione didattica e pedagogica. Il Miur ne conta 1.681, dalle valli friulane alle isole Eolie.
«Hanno innanzitutto una missione sociale» dice Giovanni Di Fede, consigliere di amministrazione di Indire, l’istituto di ricerca educativa che le sostiene con il progetto Piccole scuole. «Sono importanti presìdi delle zone a rischio abbandono: finché c’è una scuola le famiglie restano, e con esse storia e tradizioni di interi borghi. In più, costretti in classi così particolari a fare di necessità virtù, gli insegnanti hanno anticipato sui tempi la cosiddetta didattica innovativa che è l’obiettivo della scuola moderna».
Rompono i classici schemi didattici
Peer education, cooperative learning, insegnamento laboratoriale: l’inventario della nuova didattica, che supera la lezione frontale e personalizza gli apprendimenti, è un dato di fatto nelle classi dove convivono bambini di età diversa. «Per forza di cose dobbiamo rompere gli schemi della classica programmazione, accantonare i libri e sperimentare lezioni che siano efficaci per alunni di prima e quinta elementare» spiega Aida Marrone, dirigente scolastico dell’istituto omnicomprensivo Spataro di Gissi (Chieti), con 10 plessi e 11 pluriclassi.
«Per esempio, partiamo da una fiaba come “I tre porcellini” per insegnare ai piccoli come strutturare un racconto in sequenze e ai grandi come affrontare il tema del bullismo. Una passeggiata in piazza serve ai primi per conoscere la storia del borgo e agli altri per raccogliere testimonianze e documenti e apprendere il metodo della ricostruzione storica». Espedienti che mettono in pratica didattica personalizzata e “learning by doing”, imparare facendo.
Superano con successo i test Invalsi
La necessità di diversificare e personalizzare i contenuti implica un livello di preparazione e organizzazione elevato dei docenti. «Io ho 10 bambini di 5 età diverse ma, per esempio, studiamo l’inglese tutti insieme» racconta Chiara Pesce, insegnante di primaria nel plesso di Urbe dell’istituto comprensivo Sassello, sulle Alpi liguri. «Partendo dalla visione dello stesso filmato, i piccoli riconoscono sulla loro scheda le parole che hanno studiato, i mediani collegano spezzoni del video alle didascalie e i grandi mettono in ordine parti di dialogo. Aiutandosi a vicenda si consolidano le conoscenze e si favorisce il cooperative learning».
È un tipo di innovazione che funziona. «Lo dimostrano le prove Invalsi, che misurano risultati in linea con gli standard, e il successo nel passaggio alle classi numerose e omogenee delle superiori: l’autonomia di studio acquisita fin dalla primaria dà una marcia in più» conferma Aida Marrone. Certo, in pochi sperimentare è più facile e le pluriclassi non superano i 18 alunni. «Io ne ho 6 per classe e lo considero un privilegio» racconta Andrea Disint, insegnante di lettere alla media di Forni Avoltri, un paesino di 600 abitanti sui monti friulani dove la scuola non ha cattedra né banchi ma postazioni informatiche, tavoli comuni e divani.
«Ognuno può intervenire più volte in una discussione e aumenta il livello di approfondimento, i compiti possono essere eseguiti insieme, nelle belle giornate si va a leggere sul prato o a correre lungo il fiume. All’inizio assegnavo compiti diversi a ciascun alunno e si creava confusione. Poi ho capito che si poteva lavorare attorno allo stesso tavolo: semplicemente mi aspetto reazioni e risultati diversi da ciascuno a seconda di età e competenze acquisite».
Si confrontano con i pari sul web
Andrea percorre ogni giorno 60 chilometri per raggiungere le sue classi, perché è uno di quegli insegnanti che considera un privilegio lavorare nelle piccole scuole. Ma appartiene a una minoranza: in mancanza di incentivi, in tanti chiedono il trasferimento, soprattutto i precari di prima nomina che ottengono uno spezzone di cattedra in un paese e un altro 20 chilometri di tornanti più in là. «Molti docenti, poi, soffrono la mancanza di confronto con i colleghi» aggiunge Di Fede di Indire.
«Per questo stiamo creando occasioni di formazione a distanza, una rete per condividere metodologie di successo e un albo di tutor per le nuove leve». Il web ha permesso anche agli studenti di superare la mancanza di confronto tra pari. A Stroppo, per esempio, nella piemontese Val di Maira, i pochi bambini hanno il vantaggio di avere Lim, tablet e un computer a testa per sperimentare le video-conferenze, la flipped classroom (si apprende da soli con la tecnologia e ci si confronta insieme sui risultati) e avviare l’iter per diventare “scuola senza zaino”: aree di lavoro invece dei banchi, strumenti digitali, più autonomia e cooperazione. In altre parole, la scuola del futuro.
La rete che collega le piccole scuole
Oltre al progetto Piccole scuole di Indire, esistono altre reti di insegnanti che spingendo sul pedale dell’innovazione scongiurano il rischio di chiusura dei plessi più isolati. È il caso di Sbilf, la rete nata dal basso tra le scuole dell’Alto Friuli: gli insegnanti condividono percorsi didattici facendo lavorare insieme alunni di scuole diverse in aule virtuali con gruppi di studenti in Abruzzo e isole Egadi. Anche a distanza, si possono fare insieme laboratori di filosofia e giochi matematici.