Magari, o magari no, ti starai domandando perché io abbia scelto come foto di apertura di questo articolo l’abbraccio tra due persone anziane. L’ho fatto perché ultimamente, nel mio TikTok, il commento più frequente sotto i video dolci e nostalgici di coppie canute recita più o meno così: “Chissà quante volte si sono perdonati”. Una frase che leggo dappertutto, sempre più spesso, ripetuta più volte da osservatori sconosciuti che scelgono quelle sei parole per catturare un amore altrui lungo una vita. Un po’ alla Tumblr, ma secondo me significative. In fondo ci sono tanti modi per cogliere la materia di cui sono fatte e nutrite le relazioni: chissà quante volte si sono abbracciati, aspettati, scelti, divertiti, trovati. Perché scegliere proprio l’atto di perdonarsi? Trovo interessante questa associazione tra il perdono e l’amore, come se il primo fosse una misura del secondo (o viceversa?), come se il senso dei sentimenti che ci legano alla fine fosse davvero visibile là dove l’uno riconosce di aver sbagliato e l’altro riconosce di poter andare oltre quello sbaglio. Consapevoli dei limiti dell’altro, consapevoli di saper volere bene ugualmente.

@s0fiapia la vita e l’amore: 🥹🫶🏼🥲💌✨ #paris #love #fyp #viralvideo #foryou ♬ suono originale – MUSICALIVE00

Mentre su TikTok mi domandavo quanto il perdono plasmi noi e le nostre relazioni, mi sono imbattuta in un nuovo podcast. Si chiama L’abbraccio che ripara. Perdonare un delitto e racconta la storia di una donna, Lucia Di Mauro Montanino, che ha scelto di perdonare Antonio, il ragazzo che a 17 anni, nel 2009, uccise suo marito. Ho ascoltato i primi tre episodi, ho immaginato la morte di Gaetano Montanino e mi sono fermata a pensare alla forza del perdonare, in tutte le sue dimensioni. E alla fatica della scelta tra tenersi incollati al rancore nella speranza che ci consoli o vivifichi, ma senza sapere in che persona ci trasformerà, o sciogliere i nodi e concedere alla nostra imbarcazione la possibilità di conoscere nuovi mari. Una fatica enorme, certo, ma spesso anche necessaria. Per lenirci e per fare pace con gli altri, che poi significa farlo con se stessi. Ma anche per portare in salvo un modo di guardare agli altri che ammetta grigi, terre di mezzo, imperfettibilità ed evoluzione, e che non riduca tutto – come purtroppo vuole l’odierna tendenza – a poli opposti, etichette, convinzioni granitiche e contorni umani indelebili come UniPosca.

Il perdono nel podcast L’abbraccio che ripara

È la storia di un male che irrompe nel bene con una ferocia che vorrebbe essere definitiva ma che definitiva non può essere. Perché gli uomini hanno un dono misterioso e cangiante che si chiama perdono

Così Niccolò Agliardi introduce il podcast di Kayros Onlus da lui ideato, scritto e narrato: L’abbraccio che ripara – Perdonare un delitto, realizzato da Vois in collaborazione con Fondazione Cariplo, è disponibile, con un episodio al giorno, dal 18 febbraio su Sky TG24 Insider e dal 27 febbraio su tutte le piattaforme. Al centro del racconto un episodio drammatico che ha segnato la vita di molte persone per sempre. La sera del 4 agosto 2009, Gaetano Montanino, guardia giurata, venne ucciso durante un tentativo di rapina. Tra i responsabili c’era Antonio, un ragazzo di appena diciassette anni, che fu condannato a 22 anni di carcere. Oggi Antonio è padre di due figli e la sua possibilità di riscatto porta il nome di Lucia, la moglie dell’uomo che ha ucciso. Assistente sociale napoletana, Lucia Di Mauro Montanino ha dedicato la sua vita ad aiutare adolescenti segnati dalla marginalità e dalla rabbia, ma nulla l’avrebbe preparata a perdere suo marito in un modo tanto brutale. Eppure, è proprio in mezzo a questo dolore che Lucia ha trovato la forza di trasformare il suo strazio in un gesto straordinario di umanità.

Lo guardai. Mi aspettavo un mostro, invece vidi un ragazzino, un animale ferito dal male che lui stesso aveva provocato. Tremava, piangeva. Non ho mai avvertito tanto dolore negli occhi di una persona. Mi sono avvicinata. Antonio mi ha abbracciata

Lucia Di Mauro Montanino racconta a Niccolò Agliardi il suo primo incontro con Antonio, l’assassino di suo marito

Durante una marcia di “Libera” sul lungomare di Napoli, il destino ha intrecciato le vite di Lucia e Antonio. Quell’incontro, carico di emozione e significato, ha cambiato tutto: Lucia ha visto in Antonio non solo l’assassino di suo marito, ma un giovane distrutto dal male che aveva causato. Antonio, con gli occhi pieni di lacrime, le chiede perdono. E Lucia, sfidando ogni logica, lo abbraccia, scegliendo di credere in un cambiamento possibile. Da quel giorno, il percorso di giustizia riparativa ha trasformato il dolore in speranza. Antonio ha evitato il trasferimento in un carcere per adulti e oggi lavora in una cooperativa sociale che gestisce un bene confiscato alla mafia, intitolato proprio a Gaetano Montanino.

Il podcast in otto episodi diventerà un documentario in arrivo a marzo su Sky TG24.

Una stretta di corpi

«Prima di incontralo sono stata combattuta, mi chiedevo se volessi farlo per dirgli qualcosa di cattivo. Non mi pareva giusto incontrare chi aveva distrutto la mia famiglia. Perdonare è stato un lavoro immane, ma se ci crediamo dobbiamo dare una seconda possibilità a chi la percepirà come una prima, perché non ha conosciuto altro fino a quel momento. Bisogna dare la possibilità di iniziare una vita di amore», ha detto commossa Lucia Di Mauro Montanino alla conferenza di presentazione del podcast. «Il progetto è anche la storia di un gesto fisico, potente, una stretta di corpi tra Lucia e una delle persone che hanno contribuito alla morte del marito – ha raccontato l’autore Niccolò Agliardi – È una storia che non ha una verità assoluta e non ha un lieto fine a tutti i costi, ma dove cadono le barriere tra buoni e cattivi e per questo vale la pena di raccontarla. Può insegnare tanto a noi che ci crediamo buoni, e a chi crede che esistono dei cattivi», conclude Agliardi. Che nel podcast ha sapientemente cucito le voci di Lucia, Antonio e di molti altri protagonisti, in un racconto in cui «il bene si inzuppa di male e viceversa».

Di paura, indifferenza ed empatia

La storia di Lucia e di Antonio è stata per me il punto di partenza di una catena di pensieri. Sulla mia vita e su chi ne è parte, sull’essere perdonati e sul perdonare. Mi sono chiesta se siamo ancora in grado di farlo, in un presente che ha sempre più i tratti dell’odio e sempre meno della tolleranza, che si impunta più spesso di quanto non si metta in discussione. Lo psicologo Everett Worthington definisce così il perdono: “La sostituzione emotiva delle emozioni negative calde (rabbia e paura) che seguono un torto o un’offesa percepita, o delle emozioni negative fredde (rifiuto del perdono e indifferenza) che seguono il rimuginio in merito a una trasgressione, con emozioni positive, come l’amore disinteressato, l’empatia, la compassione”. Non si tratta di cancellare un fatto, ma il fatto che ci rimanga attaccato. Non si tratta di delegittimare i sentimenti negativi o di negarsi il diritto di provarli, ma di sforzarsi a trasformarli nel tempo in una disposizione verso l’altro. Mi domando se oggi le emozioni negative non siano troppo grandi e troppo nutrite perché quelle positive prendano il loro posto. Siamo nervosi, spaventati, rancorosi, vendicativi. Soprattutto quando mettiamo piede nel tribunale social, che pare renderci molto più risoluti e intolleranti quando si tratta di giudicare gli altri. Trangugiamo chili e chili di indifferenza e di violenza, gonfiandoci di sentimenti che non ci fanno respirare bene, che ci appesantiscono. Trasciniamo un fardello fatto di tutto ciò che non perdoniamo, nemmeno agli sconosciuti, convinti che sia un prezzo tutto sommato equo per ottenere un dischetto d’oro in più nel porta-medaglie che tanto ci inorgoglisce. E invece ce lo aggrava di mille pesi, tanti quanti i fili che ci siamo legati al dito per anni.

La fatica necessaria del perdono

Certo, trovare la forza di impugnare le forbici e tagliare quei fili non è affatto semplice. Lo ha detto anche Lucia: il perdono richiede tempo ed è un processo immane. Significa mettersi nei panni di chi ci ha feriti e giudicarlo un essere umano fallibile e limitato, al pari di chi è stato da lui offeso. È a tutti gli effetti uno sforzo, un atto di volontà e di libera scelta. Perdonare riguarda precisamente noi stessi. Significa rimettere in gioco la propria fiducia, sbrogliare una matassa di dolori e delusioni, e tutto questo è indubbiamente faticoso. Ma anche catartico, perché introduce un modo nuovo di guardare e vivere il proprio dolore e le mancanze altrui senza per questo sminuirne il peso. Ecco la conclusione della mia catena di pensieri: credo che il perdono ci riconsegni la capacità di vedere le sfumature e che sia un promemoria della nostra discontinuità in un presente che riduce tutto (o quasi) a una linea retta. Insomma, anche i buoni a volte fanno i cattivi, e i cattivi non lo sono sempre e necessariamente fino alla fine della storia.

Siamo ancora capaci di perdonare?

Nell’era (faticosissima) della reputazione, che a mio parere è tutto fuorché compatibile con ciò che siamo, in cui basta un errore per precipitare nell’inflessibile giudizio, proprio o altrui che sia, è ancora lecito perdonare, gli altri e se stessi? A volte ho la sensazione di trovarmi in un luogo in cui è tutto bianco o nero, in un foglio che non ha punteggiatura al di fuori dei punto e capo. I grigi sono stati esiliati, insieme ai punti e virgola, alle ammissioni di colpa e al beneficio del dubbio, nel Paese delle Cose a Metà. Quelle che non sono brandizzabili, quantificabili, targetizzabili. Quelle che però, ci piaccia o no, appartengono alla natura umana, che è mutevole e contradditoria, incline alla velocità dell’errore ma spero anche alla lentezza dell’ascolto e dello sforzo a comprendere. E invece spesso ci sorprendiamo a scavare nel passato e nel feed di chissà chi per arrabbiarci, intestardirci, sottolineare con veemenza le nostre convinzioni fino a bucare il foglio della nostra identità. Si perdona poco o nulla, nemmeno ciò che è stato e che non è più. Il perdono è sinonimo di mobilità e fluidità, a differenza del rancore che è staticità e rigidità, ed è anche un processo di umanizzazione, poiché spinge a fare i conti con i propri limiti e la propria vulnerabilità. A fare un passo indietro e uno avanti contemporaneamente, ad accorciare le distanze che mettiamo tra noi e gli altri. Ne siamo ancora capaci?

Chissà quante volte ci siamo perdonati

Ora che ho svuotato di pensieri una parte di mente, torno ad ascoltare il podcast di Agliardi e la voce di chi sceglie di credere che un futuro diverso sia possibile. Lucia ha trovato la forza di ritagliare dentro di sé uno spazio in cui far abitare sentimenti fino ad allora sconosciuti, scoprendosi capace di rinascere con chi l’aveva uccisa. Lucia mi ricorda di lasciare sempre un angolino nel serbatoio delle mie percezioni per quelle che non sono bianche o nere, per quelle che non riesco a inquadrare o nominare, per quelle che mi fanno sentire un’incoerente, un’illogica, una guasta, un’incostante. Credo che siano proprio quelle percezioni ad allenare la nostra empatia, la nostra capacità di entrare nelle pieghe delle azioni degli altri e di trovarci tanti colori diversi quanti sono gli strati di pelle che cambiamo negli anni. Sono quelle percezioni in evoluzione ad abituarci a evolvere, quasi sempre insieme agli altri. Penso allora ai miei legami di vita. Penso alle delusioni e agli sbagli reciproci, agli inciampi di un amore che a volte corre libero e a volte rotola goffo. Penso alle offese, ai torti, alle colpe. E poi agli aggiustamenti, alle scuse, alle ricalibrazioni e ai ri-calcoli. Non abbiamo ancora i capelli bianchi, ma mi piace pensare che la frase tiktokiana – chissà quante volte ci siamo perdonati – sia comunque valida. E che ognuna di quelle volte sia un secondo di tempo nel trailer della nostra umanità.