Danilo ha stretto la spalla del padre invalido sussurrandogli: «Qui staremo di nuovo bene». Sonia ha fissato a lungo una nicchia stuccata di fresco fino a quando sua madre l’ha rimproverata: «Inutile che prendi le misure, il vecchio armadio non ci sta». Fabrizio è rimasto sulla porta con in braccio il maschietto più piccolo, mentre sua moglie, i figli maggiori e il bastardino di famiglia esploravano l’appartamento. Tutti, immaginando dai loro nuovi balconi lo spazio devastato appena oltre il greto esangue del Polcevera, hanno pronunciato la stessa frase: «Siamo due volte fortunati». La prima perché “u Brooklin”, come lo chiamano i genovesi, ciascuno l’aveva percorso migliaia di volte. La seconda perché vivere sotto un ponte, per loro, è una frase che racchiuderà i ricordi senza trasformarsi in metafora. A meno di 2 settimane dal crollo del viadotto Morandi che ha reso inagibili le loro case e quelle di altre 556 persone, Danilo, Sonia e Fabrizio fanno parte del primo lotto di ricollocati.
Gli alloggi sono di proprietà del Comune, che li aveva appena ristrutturati e ne ha rinviato la vendita. Mezzo chilometro più giù, l’ultimo tratto di via Porro sembra la Berlino del 1945. Terra piatta e asfaltata male interrotta da fili d’acciaio divelti, polvere, ruspe, transenne e un cielo che sembra caderti addosso come ha fatto, alle 11.41 della vigilia di Ferragosto, un intero blocco dell’autostrada A10. E quelle briciole d’asfalto, oltre a portarsi via 43 persone, hanno spezzato in due centinaia di altre vite.
«Il cemento nasce, si muove e prima o poi marcisce»
C’è un “prima” e c’è un “dopo”, in queste palazzine evacuate perché i piloni autostradali superstiti, che le sovrastano dal 1967, scricchiolano e dovranno essere abbattuti. «Il cemento è vivo, la gente pensa che sia diverso da una piantina ma non è così: nasce, si muove e prima o poi marcisce» sentenzia Giambattista Lerma, 95 anni, seduto al tavolino di un circolo Arci di via Fillak, sulla riva opposta del fiume. Sa di cosa parla: ha costruito ferrovie per una vita, come molti suoi vicini. Gli appartamenti erano di Fs, che li affittava ai manovali prima di venderli a prezzi calmierati nel 1995. «Nonostante l’età non sono fra i primi assegnatari, ma pare sia questione di giorni» conclude. «Per ora abito da alcuni parenti, che mi sopravviveranno come io sono sopravvisuto a “u Brooklyn”. E questa è la cosa più importante».
A pochi passi da lui, un camion dei pompieri e alcuni gazebo delimitano l’inizio della zona rossa. Dal 22 agosto, quando i tecnici del ministero delle Infrastrutture hanno messo in dubbio la tenuta a breve termine del pilone più vicino all’abitato, l’accesso è interdetto anche ai residenti. Alcuni di loro, specialmente quelli distribuiti negli alberghi più lontani, tornano comunque ogni mattina per respirare aria di casa e decidere il da farsi.
«Mia suocera era ancora in vacanza quando hanno recintato gli spazi» racconta Domenico Greco, che vive nella parte alta di via Fillak, risparmiata dalla chiusura. «Non ha fatto in tempo a prendere nulla, neanche la fede nuziale. Ma con quel che è accaduto l’eccesso di precauzione ci sta». Anche chi, nella prima fase degli sgomberi, è riuscito a rientrare a casa accompagnato dai vigili del fuoco ha potuto farlo solo per una decina di minuti. «Ci hanno detto di recuperare prima i documenti relativi agli immobili, che serviranno per i risarcimenti» spiega Egle Parodi, inquilina del civico 5 di via Porro: l’orizzonte del suo balcone era tagliato in due dal ponte che ora non c’è più. «Presi quelli, i gioielli, le foto e qualche altro ricordo di famiglia è rimasto giusto il tempo di buttare in valigia un paio di vestiti. Quelli che indossavo quando è venuto giù tutto avevano addosso un dito di polvere rossastra».
«Paradossalmente la situazione ha rafforzato il senso di comunità»
Sotto i gazebo di via Fillak, tra un buffet di caffè e focaccia offerto dagli scout cittadini e il punto d’ascolto con gli psicologi della Croce Rossa, tutti ricordano l’inquieta rassegnazione che ha caratterizzato la pluriennale convivenza con il mostro, con i veicoli che lo attraversavano, con gli operai che lo rattoppavano, con i calcinacci che più di una volta sono passati vicino alle loro finestre. Segnalazioni ce n’erano state tante, l’ultima a novembre 2017, ma gli abitanti erano stati rassicurati. «Alla fine ha prevalso la familiarità, chi vive qui quasi non ci faceva più caso» ricorda Massimiliano Mauceri, voce del comitato 16152-La sfida, che prende il nome dal cap del quartiere. «Paradossalmente la situazione, unica nel suo genere, ha rafforzato un senso di comunità che ora andrebbe preservato».
Il riferimento è alla diaspora, inevitabile, che toccherà a queste 251 famiglie. Il ricollocamento procede veloce e, in barba alla tradizione locale del mugugno, nessuno si lamenta. Quasi un terzo degli sfollati è entrato nelle nuove case entro il 26 agosto. Altri 310 alloggi pubblici arriveranno a scaglioni da qui a novembre. Chi vuole può svincolarsi dalla graduatoria e cercare una sistemazione in affitto, approfittando di un contributo mensile fino a 900 euro. E poi c’è la solidarietà dei genovesi, che hanno risposto all’appello del comune mettendo a disposizione gratuitamente altri 60 appartamenti.
«È stato commovente» ammette l’assessore al Bilancio Pietro Piciocchi, trincerato da giorni dietro un banco della scuola elementare Caffaro di via Gaz, che ospita l’infopoint per gli sfollati. Sotto il sole di mezzogiorno i lavori del dopo disastro sono così vicini che il rumore senza pausa dei martelli pneumatici ti entra nella testa. «Almeno terrà lontani i cinghiali» mormora un anziano prima di dirigersi verso il gazebo di Autostrade dove 2 addetti, impermeabili a ogni sfogo, distribuiscono i moduli che danno diritto a una tantum di 10.000 euro per affrontare le prime spese. Milena Borrini, numero 48 nella graduatoria dell’assegnazione dei nuovi alloggi, si rigira il foglio tra le mani senza nascondere la diffidenza. «Dicono che si tratta di un fondo perduto che non preclude risarcimenti futuri» spiega «ma prima di firmare preferisco vedere un avvocato».
«Vivo qui da 39 anni: dove volete che vada?»
La class action contro Autostrade sarà lunga e complessa: ci sono da stabilire le responsabilità nel crollo, nella mancata manutenzione, l’entità dei risarcimenti per le vittime e per gli sfollati, che intendono chiedere il valore delle case a prezzo pieno più i danni biologici. Ma indipendentemente dai giudici, dalle accuse, dalle difese, dai periti, dalle verità sancite in sentenze di ogni grado, resteranno, incancellabili, le scorie di una vita che in ogni caso scorrerà altrove. «Io vivo qua da 39 anni» dice Manlio, artigiano. «Dove volete che vada? Il centro non posso permettermelo, e infatti in centro i ponti non crollano». Poi guarda in alto, verso quei moncherini di cemento fuori scala finiti, assieme al tetto mutilato del suo palazzo, sulle prime pagine di tutto il mondo. «Non è una cosa facile con cui fare i conti» sospira. «Era il nostro ponte. Il nostro ponte».
LE TESTIMONIANZE
Giovanna Grosso, pensionata 70enne: «Abbiamo rivissuto l’incubo dell’alluvione»
Giovanna Grosso è anziana e ha più di un acciacco, come molti degli abitanti delle palazzine sgomberate. Ma a differenza dei suoi coetanei sfollati lei non ha passato tutta la vita all’ombra del ponte Morandi. «Fino all’autunno 2015 vivevo a Mignanego, nell’entroterra genovese» racconta. «Ma quell’anno, l’ennesima alluvione che ha martoriato la Liguria ha provocato una serie di frane. Una di queste ha distrutto la mia vecchia casa». Da allora Giovanna condivide, o meglio condivideva, un trilocale di via Porro con la figlia Sonia e i suoi 3 bambini. Fino al 14 agosto, quando ha visto il ponte crollare davanti ai suoi occhi. «Sembrava un film» ricorda. «Ci siamo affacciati in tanti, ma stava diluviando e all’inizio non siamo riusciti a capire cosa fosse successo. Lo schianto dei detriti sul fiume mi ha ricordato quella maledetta frana, invece era qualcosa di ancora più orrendo». In molti, secondo la signora Giovanna, sospettavano da mesi che qualcosa non andasse sopra e sotto quei piloni: «Al rumore del traffico ci siamo abituati, ma nei giorni precedenti dal viadotto arrivava più rumore del solito: ci hanno detto che si trattava dei lavori di manutenzione e ci siamo fidati». Giovanna, sua figlia Sonia e i 3 bimbi sono stati tra i primissimi sfollati a entrare in una nuova casa, appena 5 giorni dopo la tragedia. «L’appartamento è bello, anche se un po’ più piccolo del precedente. Ma se penso che per la mia casa sepolta dalla frana sono ancora in attesa dei risarcimenti assicurativi, non posso che fare i complimenti a chi ci sta aiutando. Ora ci tocca ricominciare da zero un’altra volta, ma ci riusciremo».
Francesco Martinello, impiegato 46enne: «Dovevo ancora finire di pagare il mutuo»
Francesco Martinello non si trovava sotto il ponte al momento del crollo, ma ci era passato sopra meno di 3 ore prima. «Dovevo passare Ferragosto da mio cognato, in Piemonte» ricorda. «Ma prima di pranzo mi hanno telefonato e sono tornato qui. A pochi metri dal mio portone c’era un’auto come piantata in verticale sul greto del Polcevera». La sua, di auto, invece si è salvata: dai detriti, dalla polvere e soprattutto dall’immobilità forzata. «I miei vicini di casa non hanno ancora potuto recuperare le loro macchine. Troppo rischioso». Il trolley che doveva accompagnare Francesco in vacanza lo ha seguito in un albergo a ridosso della stazione di Genova Principe, dove è stato sistemato la seconda notte insieme ad altre 14 famiglie. Per una sistemazione definitiva dovrà attendere (è single e occupato, il che lo colloca verso il fondo della graduatoria) ma ora la sua prima preoccupazione è capire che ne sarà del mutuo: «Alcune banche hanno sospeso il pagamento delle rate. La mia ancora no, ma mi ha assicurato che lo farà entro breve. Pensare che mi mancavano meno di 3 anni all’estinzione».