Si chiama così quella malsana abitudine di spettacolarizzare la sofferenza altrui, trasformando le sciagure in materia da talk show. Un fenomeno che è sempre esistito ma che si è fatto di recente passatempo nazionale e diversivo per tuttologi affamati di like. Ognuno può ergersi a giudice, ognuno può dire la sua. Per questo sono stata a lungo in dubbio se dire anche io “la mia” sulla pubblicazione del colloquio tra Filippo Turetta e i genitori, a pochi giorni dall’omicidio di Giulia Cecchettin.

Pornografia del dolore: i confini della moralità

Mi sembrava però importante porre l’attenzione su un aspetto di cui forse non si è detto abbastanza. E cioè se sia lecito o meno divulgare una conversazione privata, con tutto ciò che ne consegue. Quella intercettata nel carcere di Verona ha scatenato un violento shitstorm nei confronti di Nicola Turetta. Il quale, lo ricordiamo, ha detto cose sbagliatissime, “normalizzando” la violenza e riducendola a qualcosa che può capitare a tutti in un “momento di debolezza”. Non è così. Non può e non deve capitare. Lo ha ammesso lui stesso, a posteriori, scusandosi. Ma è giusto mandare tutto in pasto al pubblico? Non porre, mai, alcun paletto, morale oltre che giuridico? Che fine ha fatto la tanto sbandierata e ormai obsoleta “etica dell’informazione”?

Si fanno e si dicono cose sciocche e inopportune quando si viene travolti da tragedie più grandi di noi. Figurarsi quando sono così enormi da superare l’umana capacità di comprensione, la soglia dell’ordinario e del sopportabile. Qualcosa per cui non siamo preparati. Le reazioni possono essere infinite. Alcune nobili e comprensibili, altre insensate. Ci vogliono tempo e grande forza d’animo per affrontarle. Ma come si fa quando si è sempre nell’occhio del mirino? Per questo ogni tanto bisognerebbe sospendere il giudizio. Fare un passo indietro. Tacere.

Pornografia del dolore: nel caso di Erika e Omar, il padre restò in silenzio

Alcuni anni fa fece scalpore il caso di Erika e Omar, la coppia di fidanzatini di Novi Ligure che sterminò in modo efferato la madre e il fratellino di lei. Il padre di Erika era un ingegnere stimato. Fin dall’inizio scelse il silenzio. Non rilasciò interviste, non andò in tv, non permise che la sua vita venisse vampirizzata dalla morbosità dei media e della gente. I social ancora non esistevano. Ma non lasciò mai sola sua figlia. Tutti allora ci chiedemmo come potesse perdonarla, dove trovasse la forza per andare avanti e sostenerla. Plaudimmo in coro alla dignità di quest’uomo che aveva il contegno e la statura dell’eroe tragico.

Non sapremo mai cosa disse a Erika nel loro primo colloquio. Con che cuore (pieno di rabbia, pietas, sensi di colpa?) affrontò il suo sguardo in quell’incontro, sapendo di avere di fronte non più l’adolescente difficile ma l’assassina capace di un tale scempio. Colei che gli aveva tolto tutto: affetti, certezze, normalità. La sua privacy e il suo riserbo, per quanto possibile, vennero rispettati. Solo un commento ruppe il muro di composta sofferenza che eresse nei lunghi mesi di involontaria sovraesposizione tra la mattanza e il processo:

Devo proteggerla, al limite anche da se stessa. Ma quando la guardo, a volte penso: dove ho sbagliato?

Tra imbarazzo e mancanza di confidenza

È quello che credo abbia pensato e pensi Nicola Turetta. In modo forse goffo e elementare. Scoprendosi incapace di reggere il trauma di questa tragedia, ma anche di assolvere il suo mandato di padre, che presuppone due azioni complementari e contrarie: assistere ed educare. Due cose non facili da tenere insieme. Perché la prima richiede indulgenza e dolcezza, la seconda rigore e autorevolezza. Nei fotogrammi del colloquio diffuso ormai ovunque sono rimasta colpita dal senso d’imbarazzo che emana dai corpi dei due genitori e del ragazzo. Come ci fosse una non-abitudine a parlare e a guardarsi negli occhi, una mancanza di confidenza.

Un genitore ha le sue colpe

E forse è qui la “colpa” su cui si interrogava il padre di Erika. Non aver capito, non avere ascoltato, non aver fatto abbastanza. Lasciare che i brutti pensieri crescano nella testa dei figli, giustificare i comportamenti che andrebbero corretti a tempo debito, dare ragione sempre, soprassedere, girarsi dall’altra parte quando bisogna accollarsi l’onere della strigliata e dello scontro, per distrazione, stanchezza, superficialità, inadeguatezza. È in questo modo, forse, che nascono i mostri. Giorno per giorno. Per disattenzione.