Ha fatto scalpore la settimana scorsa il disegno di legge proposto da un senatore della Lega, per fortuna abortito sul nascere, che intendeva abolire nei documenti ufficiali tutte le forme al femminile dei titoli pubblici – avvocata, sindaca, questora – pena una multa fino a 5.000 euro. Il pretesto era la salvaguardia della lingua italiana, ma in realtà aveva tutta l’aria di essere un goffo tentativo di riportare un po’ d’ordine in questa pazza società che vede crescere la presenza femminile in posizioni e ruoli un tempo di stretto appannaggio maschile.
Maschilismo (più che maschile) sovraesteso
Se si evita almeno di declinare quelle cariche in base al genere, è più facile mantenere gli equilibri di potere. Sminuire la rappresentanza togliendole la parola. In senso letterale, cioè lessicale. Ci hanno provato. Vale la pena ricordare che l’ultima edizione del dizionario Treccani ha rotto la regola dei nomi e aggettivi al maschile, usato in modo “sovraesteso” nella nostra grammatica, lemmatizzando anche le forme femminili per rispetto della parità di genere. Questo per dire che l’italiano non è in pericolo, stiano tranquilli i legislatori, se persino il più famoso dei vocabolari lo rende più inclusivo. Le lingue cambiano e si emancipano insieme a noi. Per questo si chiamano “vive”.
Maschilismo: la questione della presidenza USA
Naturalmente il problema della rappresentanza non è solo di forma, ma di sostanza. E ci tocca sottolinearlo proprio nel momento in cui il mondo celebra la prima potenziale inquilina della Casa Bianca, Kamala Harris. Storico passo avanti sulla strada della gender equality, che ha ancora il sapore del traguardo epico. Otto anni fa, nel 2016, il più preparato candidato presidente della storia d’America, Hillary Clinton, si vide soffiare la vittoria dal più disonesto e incompetente, Donald Trump. Partiva in vantaggio: era un uomo. Più affidabile e autorevole a prescindere, per pura questione di cromosomi. Sono passati quasi due lustri e l’ex presidente repubblicano è ancora in corsa per la guida degli Stati Uniti, in barba ai 34 capi d’imputazione per cui è stato giudicato colpevole e forte di un pregiudizio che ancora impone alle donne sforzi doppi, malgrado i meriti e la fedina specchiata.
Noi donne, per vincere, dobbiamo lottare il doppio
«Se lottiamo, vinciamo» è lo slogan che la candidata democratica ha gridato a Milwaukee per inaugurare la sua discesa in campo. E in fondo questo, da sempre, è lo slogan di tutte. Il mantra delle nostre vite.
Lottare per ottenere qualsiasi cosa. Dalla poltrona nello Studio Ovale, giù giù fino al lavoro con equo compenso. Faticare il triplo per dimostrare di essere “all’altezza”. Respingendo gli sgambetti e i colpi bassi
Dopo 4 anni da vice-ombra – per colpa sua o di Biden? Lo scopriremo – quello che ci aveva fatto innamorare di Kamala ai tempi del suo insediamento, ora gli avversari glielo ritorcono contro. La risata aperta e contagiosa è diventata inopportuna e sguaiata, il pugno di ferro contro tossici e criminali un segno di arroganza e scarsa empatia, le origini multietniche con cui ha conquistato le minoranze una furbata da “figlia dell’élite”. Perfino il First Gentleman, da maschio evoluto si è trasformato in un groupie sullo sfondo. Pur di affondarla, va bene tutto. Eppure i sondaggi la danno in ascesa.
La corsa è appena iniziata
Dunque possiamo dormire sonni tranquilli? Magari! Ancora scottata da quella notte di novembre in cui andammo a letto democratici e ci svegliammo repubblicani, ormai ho imparato la lezione. Le donne servono a fare i titoli dei giornali, ma i risultati sono un’altra cosa. “Kamala for President” è già una pagina nei libri di storia, però la corsa è appena iniziata e servirà tantissimo fiato per arrivare fino in fondo. Molto di più per tagliare il traguardo.
Kamala is brat, ma è Mrs?
Intanto aspettiamo la Convention, che dovrà confermare la nomination e darle il tempo di affilare le armi. La rete è già piena di insulti sessisti e meme offensivi che la riguardano. Per fortuna “Kamala is brat”, cioè una ragazzaccia, come l’ha ribattezzata la star del pop inglese Charli XCX, ci vuole altro per metterla in crisi. Resta ovviamente il problema del nome: la chiameremo Mrs President? La lingua anglosassone non lo declina. Però ha i femminili di cameriera, infermiera, segretaria… Mi sa che anche lì, Houston, abbiamo un problema.