Dalle macchine di lusso al furgone carico di latte e latticini che consegna ad alberghi e gelaterie del litorale veneziano. La vita di Teddi, oggi 47enne, è precipitata in un baratro nel 2015, quando l’impresa d’impianti fotovoltaici di cui era amministratore ha dichiarato fallimento per un crollo delle commesse, mettendo in ginocchio un centinaio di dipendenti. Con una moglie che fa la commessa con contratto stagionale e una figlia neppure adolescente, il colpo è stato durissimo: «Mi sono trovato senza stipendio: parliamo di circa 6-7.000 euro al mese. Ed è stato solo l’inizio. Per problemi legati all’azienda, che fatturava circa 60 milioni di euro all’anno, la nostra casa è finita all’asta» racconta Teddi, che preferisce non rendere pubblico il suo cognome.
«In pochi mesi abbiamo dato fondo ai risparmi e venduto tutto quello che potevamo: abiti e scarpe firmati, giubbotti, orologi…». Da un momento all’altro Teddi e la sua famiglia entrano a far parte dell’esercito che lotta ogni giorno per mantenere uno standard di vita dignitoso ma spesso non ce la fa: 5 milioni di persone, dice l’Istat nel rapporto appena pubblicato. Ovvero, 1 milione e 800.000 famiglie che oggi nel nostro Paese vivono in condizioni di povertà assoluta.
«La crisi economica ha portato con sé licenziamenti e lavoratori con occupazioni precarie e contratti discontinui. Da quando è scoppiata il numero delle persone in difficoltà è aumentato del 182%» racconta Francesco Marsico, responsabile area nazionale di Caritas italiana. «Nei nostri centri arrivano intere famiglie italiane: molte sono composte da mamme sole con i loro bambini e sono in aumento anche i padri separati. Chiedono anzitutto lavoro, poi un aiuto per pagare le bollette o un contributo per l’affitto».
E le storie come quella di Teddi, purtroppo, non sono più eccezionali
Nell’ultimo rapporto Caritas sulla povertà colpisce tra gli altri un dato: nel 2017, delle oltre 197.000 persone in difficoltà incontrate in quasi 2.000 centri, gli italiani erano più del 42%. «Anche io ho bussato alle porte della Caritas di San Donà di Piave e non è difficile immaginare come mi sentissi. Sono passato dall’offrire la cena agli amici al mettermi in coda per ritirare il pacco di alimenti» continua Teddi che ha tenuto duro, non si è fatto vincere dalla depressione, anche se intorno a lui si è creato il vuoto: «Oggi mi vergogno anche ad andare a prendere un caffè in paese, evito di farlo perché non mi va di parlare della mia situazione. La famiglia è stata la mia ancora di salvezza, perché non nascondo che in qualche momento di disperazione ho pensato anche di farla finita. Io e mia moglie abbiamo retto, ma ci sono colleghi che sono rimasti soli perché il matrimonio è andato in pezzi».
Il senso di fallimento e la solitudine sono l’altra faccia della difficoltà economica
«Ogni giorno entriamo in punta di piedi nelle case delle persone che hanno perso il posto, o degli anziani malati: ascoltiamo lo scoraggiamento e le fatiche dei figli che per assistere i genitori si ritrovano costretti a lasciare il lavoro» racconta Sabina Bianchi, che a Torino fa il medico di famiglia e da 55 anni (ne ha 70) è volontaria della Società di San Vincenzo de Paoli. «È una specie di spirale implacabile perché l’assistenza pubblica domiciliare non copre il fabbisogno e in molti casi gli altri parenti, se ci sono, hanno già delle difficoltà. Spesso questi problemi generano chiusura in se stessi, depressione, umiliazione per il fatto di dover essere aiutati. Il nostro primo sforzo è creare un rapporto di amicizia e una rete solidale attorno a queste persone».
Dell’impoverimento del ceto medio Lorenzo Orsenigo, 78 anni, brianzolo, è un esperto sul campo. È lui ad aver fondato l’associazione San Giuseppe imprenditore e ideato Telefono arancione, servizio gratuito di ascolto per chi perde il lavoro, che oggi riceve chiamate da tutta Italia. Lorenzo lo ha fatto dopo aver attraversato una crisi durissima: era presidente di un’azienda leader nel settore dei grigliati e delle recinzioni metalliche per l’edilizia, ma è stato obbligato a chiudere, versando però ai 180 dipendenti, compresi i 2 figli, fino all’ultimo centesimo.
«Da quel momento mi sono messo nei panni dei colleghi che vivevano come me il rifiuto della realtà, che si ritrovavano a dire mezze verità in famiglia per sopravvivere alla vergogna. Ho pensato di offrire ascolto telefonico e consulenze gratuite per districarsi nel caos burocratico, legale e amministrativo che bisogna affrontare ». Circa un anno fa Teddi ha trovato sul web il numero del Telefono arancione. «Quando si è rivolto a noi aveva pendenze con il fisco e con le banche» continua Orsenigo. «Gli siamo stati vicini con piccoli aiuti economici e con un supporto legale. Da maggio ha trovato un lavoro stagionale, ma ovviamente questo non può bastare né a risolvere i suoi problemi economici né a renderlo sereno».
Teddi oggi è quello che i sociologi del lavoro definiscono un “working poor”
Ha un’occupazione precaria che non lo protegge dal rischio povertà. «Sono dimagrito più di 15 chili e non so più cosa vuol dire fare una giornata di ferie. La mia vita è cambiata radicalmente: mi adeguo a svolgere una mansione che non è la mia» racconta lui parlando della sua attuale giornata di lavoro da stagionale, 9 ore passate sul furgone che trasporta latticini nei dintorni di Lignano Sabbiadoro. Secondo i dati Eurostat il numero di italiani in questa situazione è in crescita: nel 2007, prima della crisi, i working poor erano all’incirca il 9% degli occupati, a 10 anni di distanza sono cresciuti e oggi hanno superato la soglia del 12%. Tradotto significa che milioni di persone lavorano ma sono costrette a rimandare il pagamento delle bollette o il momento in cui fare la spesa al supermercato.
«Quello che è successo mi ha fatto aprire gli occhi» continua Teddi. «Oggi sono convinto che possedere una bella macchina ed essere ben vestiti non abbia senso se non si usa quel po’ di benessere per aiutare la gente che ha bisogno». «Per l’impoverimento del ceto medio ci vogliono politiche economiche lungimiranti » conclude Francesco Marsico. «Se il Paese non cambia rotta e continua a seguire solo le logiche del mercato, la situazione è condannata a peggiorare e le fila dei bisognosi a crescere. Occorre prevenire la disoccupazione e misure come il reddito di cittadinanza non possono bastare a risolvere un problema molto più ampio, che forse non vogliamo vedere».
E intanto in politica si discute di salario minimo
Una soglia minima sotto la quale la paga oraria di un lavoratore non può scendere: in molti Paesi già esiste, in Italia ancora no. Ma l’idea sta scaldando la già torrida estate di dibattito politico. In Parlamento giacciono 2 proposte di legge: una a firma PD, una dei 5 Stelle. Proprio quest’ultima sta lacerando la maggioranza gialloverde. Il progetto imporrebbe, a partire dal 2020, un salario minimo di 9 euro lordi l’ora.
Coinvolgerebbe un gran numero di dipendenti: quelli che lavorano in settori nei quali non è presente una retribuzione minima fissata da contratti nazionali di lavoro. Quanti? Il 21,2% del totale, secondo le stime fornite alla Camera da Paola Nicastro, direttore generale dell’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche). A conti fatti il provvedimento coinvolgerebbe soprattutto le imprese sotto i 10 dipendenti, soprattutto al Sud, dove gli stipendi sono più bassi. Le imprese sono già sul piede di guerra. I costi della riforma ricadrebbero su di loro e sarebbero ingenti: 4,3 miliardi secondo l’Istat, 6,7 miliardi secondo Inapp. Ma le stime fatte dall’Inps arrivano addirittura a 10 miliardi.
Un aiuto per gli imprenditori in crisi
Aperto dall’associazione San Giuseppe imprenditore, il Telefono arancione è il primo servizio nazionale di aiuto gestito da ex-imprenditori, al quale lavoratori con situazioni personali difficili o di grave rischio per l’azienda possono rivolgersi in forma anonima trovando ascolto, consigli e la consulenza gratuita di professionisti (dal commercialista all’avvocato e al notaio) coordinati dallo Studio Feole. Si può chiamare lo 0237904770, attivo 7 giorni su 7, dalle ore 7 alle 22.