C’incontriamo in un bar, una mattina di metà settimana. Non ci conosciamo benissimo, anche se ci siamo incrociate mille volte nei corridoi dell’ufficio in cui abbiamo lavorato entrambe, nei tempi felici.
La poca confidenza è compensata da un feeling istintivo, da reduci scampati alla stessa trincea. Per questo ci rivolgiamo l’una all’altra con quella gentilezza che si riserva alle persone di cui si ha una stima spontanea, fondata sulla fiducia. «Prendi un caffè? Magari un dolcetto?», le solite frasi per rompere il ghiaccio e autorizzarsi a essere se stesse fin da subito, senza tante tazzine.
Colpiti da un fuoco che credevamo amico
Mi dice com’è andata. Un resoconto asciutto che mi snocciola senza tradire emozioni. L’hanno chiamata in pausa pranzo, con gli altri già al bar e lei ancora lì, incollata al computer. Pensava che fosse una comunicazione di servizio, sul posto auto o le ferie da smaltire, invece era per dirle che il rapporto di lavoro era concluso. Così, da un giorno all’altro, soppressione del ruolo. Non è neanche riuscita a ribattere o dire qualcosa, pretendere almeno delle spiegazioni. Come si fa a reagire davanti a un plotone di esecuzione? Non c’è trauma peggiore dell’essere colpiti dal fuoco che credevi amico. Resti senza parole, ammutolito.
I giorni successivi è come vivere dentro una stanza insonorizzata, la boccia di un pesce rosso. I suoni fuori sono come attutiti. Ci sei solo tu e i tuoi pensieri. Ti rendi conto che non eri più abituata a pensare, almeno non così, da ferma. Senza inseguire il filo delle cose da fare. È strano aggiustarsi dentro una nuova condizione: donna di 50 anni, separata, senza lavoro. Mentre tutto intorno continua a correre come se niente fosse, tu non hai più un posto dove andare. Né un obiettivo per cui alzarti al mattino. Ambivi all’ozio e adesso eccoti qui, con ore intere da riempire. Ché poi le giornate volano comunque. I genitori anziani, i figli da seguire. Ma soprattutto l’ansia di ricollocarti.
Per questo mi hai chiamato. Non era a questo che servivano le reti? Per chiedere aiuto.
Precari a 50 anni
Quando si parla di precariato si pensa sempre ai giovani. E invece a spasso ci sono anche quelli che ancora non sono pronti a fare i calcoli per la pensione, ma hanno vent’anni di lavoro alle spalle, a volte più. Persone con mutui ancora da estinguere, ragazzi che devono completare gli studi, anziani a cui pagare la badante. Adulti insomma, che non possono permettersi di mettersi “a riposo” e che un mercato in continua evoluzione fa sentire articoli da rottamare. Perché sono troppo qualificati sulla carta, ma poco “skillati” nella realtà.
In pratica costano tanto, ma non rispondono ai requisiti del nuovo mondo del lavoro. Il digitale ha rivoluzionato in poco tempo competenze e mansioni, creato nuove professioni, cambiato regole e strutture, che rendono desuete e poco utili le esperienze acquisite.
Sfidare l’incertezza per reinserirsi
Dunque è impossibile reinserirsi nella “vita attiva”? No. Gli ultimi dati ci dicono che le aziende stanno tornando ad assumere gli over 50, ma per riuscirci occorrono transilienza e flessibilità. Cioè capacità di sviluppare abilità e funzioni adattabili a richieste diverse, dimenticando il posto fisso. È questo forse lo sforzo più grande: cambiare il paradigma culturale e accettare di essere, sì, precari a vita. “On” grazie a contratti a termine o a progetto per certi periodi, “off”, con la possibilità di formarsi o prendersi una pausa, in altri. Una cosa che può scoraggiare e far paura. Perché sentirsi “messi alla prova” sempre, senza la possibilità di raccogliere mai quel che si è seminato, è un po’ frustrante. E le energie non sono più quelle dei 20 anni. Ma visto che non c’è scelta è importante attrezzarsi. Scacciare via il senso di impotenza e fallimento che spesso genera l’essere accantonati, recuperare la curiosità e la voglia di imparare, vivere giorno per giorno godendo anche dei momenti vuoti, sfidare l’incertezza, e viverla quasi come opportunità. Una fatica bestiale, ma si può. Si deve.
Quel giorno ci siamo lasciate al bar con un abbraccio forte quasi da amiche. Ha pianto nella stretta e lì ho sentito il punto molle che tutti abbiamo dentro al cuore. Il nostro fuoco e la nostra debolezza. Il chip che ci fa rinascere ogni volta, la centralina della resistenza, che ti rialza anche se sei spezzato. L’ho vista scendere dentro la metro. Le spalle dritte, il viso asciutto. La nuova vita da riprendersi.