C’è Waris, che ha subìto l’infibulazione a 5 anni e oggi lotta per impedire che altre bambine siano vittime di mutilazioni genitali. Margarita, che ha dovuto sopportare il rapimento e la morte della figlia 17enne e adesso combatte contro la tratta di esseri umani. E Isoke, che è stata costretta a prostituirsi e ora aiuta le donne a liberarsi dallo sfruttamento sessuale. Sono loro le 3 finaliste del Premio internazionale “La donna dell’anno”. Il riconoscimento promosso dal Consiglio regionale della Valle d’Aosta, di cui Donna Moderna è media partner, compie 20 anni e il tema di questa edizione 2018 è quanto mai importante: «Diciamo no alla violenza in ogni sua forma».
Le finaliste
Waris, Margarita e Isoke hanno storie diversissime, ma unite da un filo comune di dolore e coraggio. Hanno vissuto la violenza sulla propria pelle, eppure hanno trovato la forza di reagire e diventare voce di delle donne maltrattate, abusate, perseguitate, private di ogni diritto fino a quello più sacro della vita. Queste sono le loro storie.
Waris Dirie, 53 anni, dalla Somalia
Nata in Somalia da una famiglia di nomadi, a 5 anni Waris deve affrontare l’infibulazione e 13 anni un matrimonio combinato con un uomo anziano. Ma lei scappa attraversando il deserto da sola, fino ad arrivare a Londra. Qui, scoperta dal fotografo Terence Donovan, diventa una modella di successo. Posa per il Calendario Pirelli, recita nel film 007 – Zona pericolo. Ma non può dimenticare la sua vita precedente. Decide di raccontare della la mutilazione genitale, prima in un’intervista poi nella biografia Fiori nel deserto, tradotta in 51 lingue. Dal volume prende nome la fondazione che Waris crea nel 2002, la Desert Flower Foundation. Obiettivo: informare e sensibilizzare sull’infibulazione, aiutare le donne che l’hanno subìta e impedire che vi siano altre vittime.
Waris lo fa anche con un altro libro, Figlie del dolore, dove racconta: «Mi sveglio in un bagno di sudore. È molto presto, non sono ancora le sei. Provo a richiudere gli occhi, ma vedo ancora quelle immagini angoscianti: una miserabile stanza d’albergo, piccola e con la carta da parati ingiallita. Una bambina stesa sul letto, di dieci, dodici anni al massimo. Nuda. Quattro donne circondano il letto e la tengono giù. La bambina ha le gambe spalancate, e una vecchia le siede davanti con un bisturi in mano. Le lenzuola sono zuppe di sangue. La bambina grida con quanto fiato ha in gola. Continua a urlare. Grida da strappare il cuore. Sono state quelle urla a svegliarmi. E anche adesso sembrano riecheggiare nella mia camera».
All’epoca molti ignorano che questa pratica sia una realtà anche in Europa, ma l’associazione di Waris conduce un’indagine che porta l’Ue a inserire, per la prima volta, la lotta contro la mutilazione genitale femminile nel suo programma. Oggi la Desert Flower Foundation ha 10 sedi, dalla Germania al Gibuti, dall’Inghilterra alla Sierra Leone. Proprio qui, dal 2014, 1.000 ragazze sono state salvate e avviate allo studio.
Margarita Meira, 68 anni, dall’Argentina
Nel 1991 Margarita vive il dolore più atroce che una madre possa vivere: sua figlia Susi, 17 anni, viene rapita all’uscita da scuola. La tratta di esseri umani non è un reato contemplato dal codice penale argentino, la polizia le ripete che la ragazza è andata via di casa spontaneamente. Ma lei continua a cercarla con un terribile presentimento: «Poliziotti, ufficiali giudiziari, politici… Erano loro i carnefici di mia figlia e di tante altre ragazze».
Dopo 4 anni, la verità: Susi viene ritrovata morta in uno dei 1.200 “prostibulos”, bordelli illegali, di Buenos Aires. Era stata seviziata, drogata, costretta a prostituirsi. Margarita non può più salvare Susi, ma può impedire che ad altre ragazze succeda ciò che è successo a sua figlia. A Constitución, uno dei quartieri più pericolosi di Buenos Aires, fonda Madres victimas de trata. Un’associazione autogestita che offre sostegno alle vittime di tratta e alle loro famiglie: con psicologi, avvocati e investigatori (tutti volontari), aiuta i genitori a denunciare i rapimenti, cerca le giovani sparite, assiste quelle che vengono ritrovate.
Oggi Margarita ospita le ragazze fuggite dai loro sfruttatori a casa sua, ma il suo obiettivo è costruire un vero centro di accoglienza per le sopravvissute alla tratta, affinché possano contare su un alloggio sicuro e un sostegno fisico, psicologico e legale durante il periodo di recupero.
Isoke Aikpitanyi, 28 anni, dalla Nigeria
La famiglia di Isoke, a Benin City, è numerosa e povera: lei deve aiutare a mantenerla vendendo con la madre frutta e verdura. Per questo, quando le viene offerta la possibilità di andare a lavorare in Europa, accetta, convinta di poter finalmente migliorare la propria vita e quella dei suoi. A 20 anni arriva a Torino, ma non trova ciò che aveva sognato. Ad aspettarla c’è una “maman”, una delle protettrici che gestiscono la prostituzione nigeriana in Italia. Isoke finisce sulla strada: notte e giorno, sette giorni su sette, incinta o subito dopo un aborto. Subisce ogni genere di violenza e, quando tenta di scappare, viene quasi uccisa. «Non mi interessava più se riuscivo a vivere o morivo. L’importante era essere libera» ricorda oggi.
Quando, dopo anni, riesce a fuggire, fa un’altra scelta di coraggio: aiutare le ragazze come lei. Con il sostegno di un uomo italiano, che poi diventerà suo marito, fonda l’Associazione vittime della tratta. Inizia ad accogliere alcune nigeriane ad Aosta, nella “casa di Isoke”. Presto nascono altre case in Piemonte, Lombardia, Liguria. E lei denuncia l’orrendo sfruttamento in 3 libri – Le ragazze di Benin City, 500 storie vere, Spada, sangue, pane e seme – e nel docufilm Le figlie di Mami Wata. Grazie alla sua determinazione ha assicurato una via di uscita a migliaia di giovani nigeriane destinate a prostituirsi o a essere usate come fattrici di bimbi. E ha costruito una rete di ex vittime che assistono le nuove vittime della tratta. Quest’anno ha un’altro, importante sfida davanti a sé: tornare in Nigeria, dopo 18 anni, per fermare quei viaggi della speranza che per tante si trasformano in un incubo.
Il voto online e la targa di Donna Moderna
Fra le 3 finaliste, il 14 marzo 2018 a Saint-Vincent la giuria proclamerà la vincitrice del 20° Premio internazionale “La donna dell’anno”, che riceverà 20.000 euro. E fino al quel giorno anche tu puoi partecipare, scegliendo la tua candidata sul sito del Consiglio regionale della Valle d’Aosta: la più votata dal pubblico online vincerà il Premio Popolarità di 15.000 euro. Alla terza classificata andranno 10.000 euro. Somme che dovranno essere spese interamente per la realizzazione o il completamento dei progetti. E durante la cerimonia di premiazione, Donna Moderna assegnerà una targa speciale a una delle 3 finaliste.
Dove e quando incontrare le finaliste
Waris Dirie, Margarita Meira e Isoke Aikpitanyi saranno a Milano il 13 marzo, dalle 18 allo Spazio Eventi del Mondadori Megastore di Piazza Duomo, insieme ad altre 2 donne straordinarie. Una è Rosa Pepe, avvocato di Napoli che con la sua associazione Artemide sostiene le donne vittime di violenza, fornendo loro supporto legale e psicologico: per questo suo impegno le è stato assegnato il Premio Soroptimist International Club Valle d’Aosta 2018. L’altra è la cantante maliana Inna Modja, testimonial di questa 20ª edizione del Premio: come Wariss, anche lei ha subìto la mutilazione genitale e oggi è impegnata in tutto il mondo per contrastare questa pratica.
Le 3 finaliste e la vincitrice del Premio Soroptimist incontreranno anche i ragazzi di Aosta il 12 e il 13 marzo: gli studenti dell’Istituto tecnico e professionale regionale Corrado Gex, del Liceo artistico di Aosta e dell’Istituzione scolastica di istruzione liceale tecnica e professionale di Verrès. E il 12 alle 17, all’Arco di Augusto, parteciperanno all’inaugurazione di “Una panchina rossa per un mondo senza violenza”, iniziativa simbolica cui la Valle d’Aosta aderisce.
Le vincitrici degli anni precedenti
Waris, Margarita e Isoke si aggiungono a una lunga lista di donne straordinarie selezionate nelle passate edizioni: dalla deputata curda Leyla Zana al medico Chiara Castellani, dall’attivista yazida contro i crimini dell’Isis Nadia Murad alla biologa scozzese Karina Atkinson, premiata nel 2017 per aver creato in Paraguay una riserva naturale protetta.