Una donna è morta a Roma al policlinico Umberto I per una rara forma di cancro, che sembra collegato alla marca principale di protesi mammarie al silicone, la Allergan. La protesi le era stata impiantata 12 anni fa. Sarebbe il primo caso italiano.
È dal primo gennaio 2019 che nell’Unione Europea è stata sospesa la distribuzione della Allergan. La ragione: il rischio di un tumore raro (lo stesso della paziente romana) chiamato linfoma anaplastico a grandi cellule. Per approfondire il nesso tra protesi e tumore, l’Unione europea ha istituito un gruppo di lavoro internazionale. L’Italia a quanto si apprende parteciperà alle riunioni in qualità di osservatore.
La protesi sotto accusa
Una notizia che ha alzato i livelli di guardia dello stato di ansia nelle donne che hanno subito un intervento di mastectomia, cioè di asportazione del seno, e ora indossano per l’appunto una protesi al silicone. «La protesi sotto accusa fa parte della gamma dei modelli cosiddetti testurizzati, cioè con la superficie esterna ruvida», spiega Egidio Riggio, chirurgo plastico Istituto nazionale dei Tumori di Milano. «È questa in particolare che provocherebbe uno stato di infiammazione cronica ai tessuti, in grado di alterare il metabolismo fisiologico delle cellule e – nelle donne predisposte – portare alla formazione del tumore. Allo stato attuale comunque per questo marchio sarà necessario attendere le decisioni ufficiali al riguardo da parte del GMED, l’ente francese certificatore del rinnovo dei marchi CE. Dal punto di vista clinico, in ogni caso, in base alle indicazioni ufficiali del Ministero della Salute e di tutte le Società scientifiche, le donne portatrici di protesi Allergan non devono essere richiamate, né tanto meno le protesi rimosse».
Quanti i tumori in Italia causati da questa protesi
Dai dati forniti dal Ministero della Salute nel 2018 sono state utilizzate in Italia circa 51mila protesi, 95% testurizzate e 5% lisce, nel 63% per motivi estetici e nel 37% per motivi ricostruttivi. A oggi sono stati riportati in totale 39 casi di questa rara forma di linfoma e non c’è aumento dei casi negli ultimi anni. A conti fatti, l’incidenza in Italia di BIA-ALCL, questa è la sigla della malattia, può essere al momento confermata in 2.8 casi su 100mila. Numeri piccoli, certo, ma non per questo meno importanti.
Per la prima volta, la Fda, la Food Drug Administration statunitense, ha lanciato l’allarme nel 2011. Da allora, le autorità di tutto il mondo stanno cercando di analizzare casi simili. Ad oggi, le autorità sanitarie hanno identificato a livello mondiale 660 casi di tumore attribuibile alle protesi.
Come prevenire questo tumore
«Tutte le donne con protesi mammarie effettuano regolarmente un controllo annuale con ecografia mammaria», sottolinea il dottor Riggio. «Così, è possibile identificare precocemente la presenza di questa forma tumorale e curarla bene». E non solo. I controlli di routine negli anni successivi all’intervento possono infatti cogliere tempestivamente anche altre eventuali anomalie.
I segnali da tenere d’occhio
Per fare chiarezza sulle protesi è addirittura scesa in campo la Food and Drug Administration, l’ente americano di controllo sui farmaci e sui dispositivi medici. Gli esperti hanno messo a punto un dossier sulla base dei quesiti che si pongono le donne, e lo hanno pubblicato sul sito dell’Ente. «La donna deve sapere che è necessario parlare subito con il proprio senologo se si accorge che qualcosa non va», continua il dottor Riggio. «I segnali da non sottovalutare sono un indurimento improvviso del seno, un arrossamento con calore della parte infiammata, un ingrossamento nella zona interessata».
Quando bisogna intervenire
Le ragioni più comuni? Un’infezione, oppure la cosiddetta contrattura capsulare, cioè lo sviluppo di tessuto cicatriziale attorno alla protesi. «Nel caso di infezione generalmente è sufficiente una cura antibiotica ma, come sempre, prima si interviene e meglio è», continua l’esperto. «Se si aspetta sperando che passi, si rischia il ricovero e l’intervento per togliere la protesi. Nel caso di indurimento della protesi, invece, oggi ci viene in aiuto il lipofilling, vale a dire il trapianto di grasso prelevato dalla paziente stessa. Si è visto infatti che migliora il tessuto e in certi casi risolve del tutto il problema».
Quanto durano le protesi
Da sfatare poi l’idea comune che le protesi al silicone durino per sempre. Buona parte delle protesi dura oltre i 15 anni dall’intervento. Non hanno una scadenza vera e propria ma si possono usurare, quindi è importante controllare la loro integrità con ecografia e risonanza magnetica. «Si può creare una spaccatura sulla superficie della capsula», aggiunge l’Esperto. «In una rottura iniziale il gel di silicone contenuto all’interno resta dentro la capsula che racchiude la protesi, ma dopo un certo lasso di tempo fuoriesce e può causare infiammazioni e indurimenti. Ma, intendiamoci, è un processo che accade in meno del 10% dei casi nell’arco dei primi dieci anni. Inoltre può richiedere anche anni e si coglie tempestivamente durante il controllo annuale. In questo caso, non si può riparare: la protesi va sostituita».
La scelta di non mettere la protesi
La Food and Drug administration sottolinea anche l’importanza di parlare con l’oncologo per decidere insieme il tipo di protesi più adatta. Oppure, se non metterla del tutto. Una scelta radicale che fa parte soprattutto della realtà americana. Molte donne infatti dopo una mastectomia radicale optano ad esempio per tatuaggi importanti, che coprono del tutto la zona operata e camuffano le cicatrici. «Negli Stati Uniti la protesi ha un costo che non tutte le assicurazioni sanitarie coprono, o perlomeno non del tutto», dice l’esperto. «Da noi invece il Servizio Sanitario Nazionale interviene su tutto, dall’intervento alle cure alla protesi. Questo, chiaramente, se ci si rivolge a un Centro pubblico».
Anche l’età ha la sua importanza. Da noi, spesso sono le donne più anziane che preferiscono evitare la protesi, soprattutto in caso di mastectomia bilaterale, cioè a entrambi i seni, oppure se la taglia è piccola perché in tal caso non si vede la differenza. Gioca a volte anche lo choc. Chi ha subito un intervento con una protesi sbagliata, oppure ha avuto problemi nei mesi successivi, talvolta rifiuta la seconda operazione e preferisce il tradizionale reggiseno con la coppa imbottita.
Le protesi più adatte
Ma quali sono le protesi più adatte per la ricostruzione dopo mastectomia? «La scelta va fatta in base a diversi criteri», chiarisce il dottor Riggio. «Se il seno controlaterale, cioè quello non operato, è di taglia piccola oppure media e le condizioni cliniche lo permettono, si può effettuare l’inserimento della protesi al silicone nell’immediato. Altrimenti, si opta per l’espansore, che in pratica è una protesi temporanea. Richiede alcune sedute ambulatoriali per gonfiarla man mano e nell’arco di sei mesi è possibile inserire la protesi definitiva nello spazio che si è creato».
Prima arriva la diagnosi e migliore è il risultato estetico
Di certo, aggiunge l’esperto, oggi il risultato è più naturale rispetto a un tempo, grazie alla diagnosi tempestiva. Così, aumentano le probabilità di ricorrere alla mastectomia nipple sparing. In pratica, viene asportata solo la ghiandola mammaria e risparmiata la cute con areola e capezzolo, a tutto vantaggio dell’aspetto che è ancora più naturale. «Le donne non amano invece la ricostruzione con tessuti autologhi», conclude il dottor Riggio. «In Italia, così come negli Stati Uniti, sono meno del 10% a scegliere questa opzione. Si utilizzano infatti lembi di tessuto della donna stessa, prelevati solitamente dalla parte bassa dell’addome, che lasciano cicatrici nella zona del prelievo».