Certo, ci vuole anche la massima collaborazione da parte della donna che deve subito rivolgersi al medico in caso di segni sospetti. Ma difficilmente non lo fa. Forse, però, queste rassicurazioni non bastano a tranquillizzare tutte le donne. Abbiamo quindi deciso di chiarire i dubbi più diffusi con due massimi esperti: Lucia Del Mastro, coordinatrice della Breast Unit dell’Ospedale Policlinico San Martino di Genova e ricercatrice Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro e Nicolò Scuderi, direttore della cattedra di Chirurgia plastica e ricostruttiva dell’Università La Sapienza di Roma.
Le protesi sono tutte uguali?
Risponde Nicolò Scuderi: «No, le protesi al silicone possono essere ruvide oppure lisce. Le ruvide, che sono quelle “accusate” del rischio di tumore, vengono preferite nel caso delle donne operate e per una ragione ben precisa. Dal momento che non c’è più la ghiandola mammaria, è necessaria una protesi che rimanga stabile, come accade appunto con quelle dalla superficie ruvida, visto che si “aggrappano” ai tessuti del seno».
Le donne che fanno un intervento estetico non rischiano?
Risponde Nicolò Scuderi: «No, perché in questo caso si utilizza una protesi liscia, visto che va inserita in un seno con una struttura integra. Una volta impiantata viene in un certo senso avvolta dalla ghiandola mammaria, dai muscoli e dai tessuti, che la mantengono stabile».
Perché quelle ruvide vengono considerate a rischio?
Risponde Lucia Del Mastro: «Sembra che provochino uno stato di infiammazione cronica ai tessuti che potrebbe alterare il metabolismo fisiologico delle cellule e provocare, nelle donne predisposte, la formazione del tumore. Questa però al momento è solo un’ipotesi, avvalorata dai, sottolineo pochi, casi tra le donne portatrici di queste protesi. Certo, non possiamo ignorarne l’esistenza, ma per rasserenare le donne va detto che la FdA (l’Ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici) ha segnalato l’esistenza del rischio, ma non ha ritirato le protesi, a differenza della Francia. In Italia si continuano a utilizzare, ma il Registro ci permetterà di avere sotto controllo il numero delle protesi applicate, comprese quelle messe per ragioni estetiche, e di monitorarle. In caso di eventi avversi, infatti, è necessario che lo specialista li segnali al Registro. E se c’è il sospetto di malattia tumorale, la donna va inviata a un centro oncoematologico per la diagnosi certa e terapie ad hoc».
Quali sono i segnali a cui stare attente?
Risponde Lucia Del Mastro: «A un cambiamento nell’aspetto e nella forma di uno dei due seni. Come un arrossamento con calore, segno di un’infiammazione, lo sviluppo di tessuto cicatriziale attorno alla protesi che rende il seno duro o un ingrossamento di una zona. Sono tutte situazioni che non sono necessariamente legate al linfoma anaplastico a piccole cellule e che possono verificarsi con entrambi i tipi di protesi. Possono dipendere ad esempio da un’infezione oppure da una reazione dell’organismo contro il corpo estraneo. In tutti i casi, si possono risolvere bene e quasi mai è necessario togliere la protesi. Ovviamente se si interviene tempestivamente».
Le lisce possono scoppiare?
Risponde Nicolò Scuderi: «No, è una notizia falsa. Possono rovinarsi. Si possono creare delle fessurazioni, come delle screpolature sulla superficie. E, nel tempo, da queste “rughe” può fuoriuscire del silicone che infiamma la zona oppure causa indurimenti. È una situazione legata in genere all’invecchiamento della protesi: anche per i modelli più recenti dopo una quindicina di anni può essere necessaria la sostituzione. Per questo anche se la protesi è messa a fini estetici è meglio sottoporsi a controlli periodici».
Le protesi con tessuto autologo sono un’alternativa?
Risponde Nicolò Scuderi: «Più che un’alternativa, è una scelta in più a disposizione della donna, ma lo specialista deve informare su tutti i pro e i contro. I risultati sono ottimi nel caso di un intervento estetico, quando il seno è piccolo ed è necessario aumentarlo di una taglia. Altrimenti il prelievo di tessuto da altre parti del corpo, di solito l’addome, richiede più interventi, anche tre, e una serie di cicatrici nella zona dov’è stato asportato il tessuto.
La protesi non è un obbligo, è una scelta
Senza protesi dopo un cancro al seno: si può. «Sono stata operata al seno tre volte. La prima, 27 anni fa, con una quandrantectomia. In pratica mi hanno tolto un quarto di mammella e poi mi hanno messo una protesi» racconta Anna Maria Mancuso, 59 anni, sopravvissuta a un cancro al seno che l’ha colpita più volte e che ha affrontato con spirito da guerriera. Lo stesso spirito che l’ha portata a fondare l’associazione Salute donna Onlus, che lotta per i diritti delle malate di tumore. Ma non si è fermata qui. La sua battaglia è continuata a livello politico, come racconta nel libro Dal cancro al Senato: il viaggio di una vita coraggiosa. E di coraggio ce ne è voluto tanto per affrontare gli interventi, le terapie e le complicazioni con la protesi. «Dopo vari tentativi falliti per problemi di rigetto, l’ho tolta definitivamente. Quando sono stata operata all’altro seno, ho provato il lipofilling, ma nel 2014, dopo una mastectomia bilaterale, ho deciso di non fare più niente. È stato un lungo lavoro di accettazione e ora mi piaccio esattamente così, con le mie cicatrici. Alle donne che devono decidere se e come ricostruire il seno dico che è una scelta molto personale. E consiglio di informarsi bene su tutti i pro e i contro, ma soprattutto di guardarsi dentro. Per capire che cosa va davvero meglio per loro».