Sempre più drammatica la situazione a Hong Kong, dove gli scontri in corso da più di cinque mesi – le prime manifestazioni di massa risalgono allo scorso giugno – sono entrati in una fase critica. Per una settimana, infatti, centinaia di studenti sono rimasti barricati nella sede del Politecnico, il PolyU, rifiuntadosi di consegnarsi alla polizia che aveva assediato l’edificio e bloccato le vie di fuga. Alcuni sono riusciti a scappare in modi rocamboleschi (calandosi in strada dalle tubature del palazzo), mentre altri hanno accettato di lasciare volontariamente il campus dopo i tentativi di mediazione di alcuni insegnanti e rappresentati governativi. Nel frattempo gli altri manifestanti, fra cui molti genitori preoccupati per la sorte dei propri ragazzi, si riunivano nella zona assediata per chiedere una soluzione pacifica.
Delle 600-700 persone inizialmente coinvolte nell’assedio, almeno 200 erano minorenni, la cui stragrande maggioranza sono stati fatti evacuare. Come riporta il Corriere della sera, nella notte tra lunedì 18 e martedì 19 novembre «circa 600 gli studenti guerriglieri che sono usciti dal campus, stremati dopo la lotta. Per i 200 minorenni solo identificazione e poi a casa. Per i 400 sopra i 18 anni, arresto e denuncia criminale». Il reato contestato è quello “di rivolta” ed è esattamente quello che gli studenti più grandi temevano fosse loro imputato: rischiano infatti anni di carcere. Bisogna qui ricordare che stanno protestando da mesi per richiedere maggiori libertà democratiche e per proteggere la semi-autonomia di cui gode Hong Kong dalle ingerenze sempre maggiori del governo cinese.
La preoccupazione dei genitori
Il New York Times ha raccolto le testimonianze di alcuni genitori che hanno deciso di scendere in piazza nei giorni dell’assedio. «Se non fosse stato per mia figlia che è lì dentro, non mi sarei mai avvicinato così tanto alle barricate della polizia (…) Prima, mi chiedevo se i manifestanti, o quelli che sembravano essere manifestanti, non avessero oltrepassato il limite. Ma adesso ho capito perché sono stati costretti a usare certe tattiche», ha raccontato al quotidiano americano Sam Ho, un designer di interni di 43 anni la cui figlia di 17 era all’interno del campus. Come lui, alcune centinaia di genitori si sono seduti in segno di protesta pacifica vicino agli schieramenti di agenti in tenuta antisommossa, reggendo cartelli che recitavano “Salva i ragazzi, non uccidere i nostri figli”, “Sono figli di Dio, lasciali andare!”.
Da dove viene la protesta
Le proteste non sono affatto nuove: si ricollegano infatti al cosiddetto “movimento degli ombrelli” del 2014 e, come ha spiegato Il Post, si sono riacuite a giugno a causa di un «emendamento a una legge sull’estradizione che, se approvato dal Parlamento locale, avrebbe consentito di processare nella Cina continentale gli accusati di alcuni crimini gravi, come lo stupro e l’omicidio». Secondo molti attivisti e movimenti che si occupano di difendere i diritti umani, «l’emendamento sarebbe stato un primo passo verso l’ingerenza cinese nel sistema giuridico di Hong Kong e avrebbe consentito alla Cina di usarlo contro i suoi oppositori, perché nulla avrebbe impedito al regime di inventare accuse allo scopo di estradare qualcuno».