Per spiegarmi l’antifragilità, tanto preziosa in questo 2021 carico di incognite, Giuseppe Vercelli mi riporta alla prima infanzia: «Tutti nasciamo antifragili» dice. «Da bambini usciamo continuamente dalla nostra zona di comfort per esplorare nuovi mondi, non temiamo gli ostacoli, non ci spaventa l’idea di fallire e l’ignoto, anzi, ci incuriosisce». Questo professore, che insegna Psicologia dello sport all’università degli Studi di Torino, è convinto che ciascuno di noi possa tornare a essere proprio quel bambino, tanto da avere dedicato al tema un saggio scritto con la life coach Gabriella D’Albertas: Antifragili. Fai della fragilità il tuo punto di forza e dell’incertezza un cavallo di battaglia sarà in libreria dal 21 gennaio.
Già psicologo ufficiale del Coni in diverse Olimpiadi, Giuseppe Vercelli è responsabile dell’area psicologica della Juventus e nella sua carriera ha preparato fuoriclasse come la canoista olimpionica Josefa Idem e gli sciatori Giorgio Rocca e Sofia Goggia. «Se vuole una definizione esatta del mio lavoro, io sono uno psicologo della prestazione: mi interessa indagare il rapporto tra l’accettazione dei propri limiti e la capacità di evolvere, migliorare. Studio quella chiave che trasforma i nostri punti deboli in opportunità. E lo sport non è altro che un laboratorio dove esaminiamo i meccanismi che si ripetono nella vita».
Ma cos’è alla fine questa antifragilità? Una forma di resilienza?
«La definizione nasce nel 2012 dal filosofo libanese Nassim Nicholas Taleb, è stato lui il primo a spiegare che possiamo trarre vantaggio dal “Cigno nero”: ha definito così un evento negativo di grandi proporzioni che colpisce un individuo o una comunità e che è capace di sparigliare le carte, portando alla luce i lati più fragili. Succede con l’arrivo di una pandemia come quella che stiamo vivendo. Ma anche con la morte di una persona cara, una malattia, un fallimento professionale. C’è però una bella differenza con la resilienza. Il resiliente è chi ha la forza di superare l’ostacolo e proseguire verso l’obiettivo. L’antifragile cambia prospettiva. È lo sportivo che non solo si rimette in forma dopo l’infortunio, ma accetta che quell’infortunio possa cambiare la sua vita e scopre nuovi traguardi magari inaspettati. Succede perché non nasconde le sue vulnerabilità, né con sé né con gli altri. Ed è questo meccanismo che gli permette di andare oltre: l’energia che prima usava per difendersi dalla paura di sbagliare o per negare i suoi limiti viene liberata e usata per trovare nuove soluzioni».
Mentre lei parla sono convinta che tutti stiano pensando ad Alex Zanardi…
«Zanardi è un caso eccezionale ma sono tanti gli esempi nello sport. Ha presente Josefa Idem? Quando ha affrontato l’ultima Olimpiade, a Londra, aveva 47 anni. Lo ha raccontato lei stessa: pensava al peso dell’età, temeva di non essere all’altezza, si sentiva come capita a tutti quando la vita porta a nudo le tue debolezze. Come un 50enne che perde il lavoro e non sa se potrà trovarne un altro. Josefa Idem poteva restare ingabbiata da questo pensiero oppure cambiare prospettiva: ha lavorato su se stessa mettendo a fuoco i suoi carichi mentali. Le aspettative, il pubblico, l’età erano come zavorre che appesantivano la sua canoa. Le ha analizzate una alla volta con lucidità e questo le ha dato l’energia per tirarle giù da quella canoa. Quando si è presentata alla gara, stava pensando solo al suo obiettivo, ed è arrivata quinta».
Lei parla di sport e di grandi talenti. Ma noi persone comuni come ritroviamo l’antifragilità?
«L’antifragilità si basa su 4 pilastri ben precisi e con il mio team abbiamo studiato anche un test che permette di misurarla. Se devo dare un consiglio a chi ci legge, gli direi di allenarsi prima di tutto a prendere coscienza di ciò che gli accade quotidianamente e mettersi alla ricerca di una soluzione con lucidità a partire dai piccoli imprevisti di ogni giorno. Seconda sfida: sviluppare quella che noi psicologi chiamiamo “evoluzione agonistica”: è il coraggio di chi, per esempio, pur avendo un lavoro appagante si butta in una nuova avventura. Tradotto, significa: cerchiamo le condizioni più stimolanti anche quando sono scomode. Il terzo pilastro è l’agilità emotiva, la capacità di vivere emozioni intense senza perdere il controllo».
Mi può fare un esempio?
«Pensi alla figura dell’allenatore di calcio durante una finale di Champions: dentro di lui c’è una tempesta di emozioni ma una parte della sua mente non smette di analizzare quello che accade in campo, per dare indicazioni alla squadra. Ogni volta che affrontiamo una prova, una parte di noi dovrebbe guardare quello che accade “da fuori”, per portarci oltre l’ostacolo».
Lei ha parlato di 4 pilastri, ne manca uno.
«L’abbiamo chiamato “distruttività consapevole”. E in questo anno di incertezze è la nostra carta vincente. La pandemia ha messo a nudo le nostre debolezze, ma ha anche sgretolato la piramide dei nostri bisogni, lasciando solo quelli fondamentali. È il momento giusto per potare i rami secchi, come si fa con gli alberi per farli crescere. Non siamo gli stessi di un anno fa. La nostra vita è cambiata e anche noi lo siamo. Per rinascere e ricominciare dobbiamo liberarci del vecchio che non ci appartiene più: abitudini e oggetti che magari ci tengono legati a una vita passata ma anche aspettative negative o positive che ci portiamo dentro e che ci impediscono di concentrarci su quello che possiamo costruire ora. Per immaginare una nuova realtà dobbiamo comportarci come i bambini quando giocano a “facciamo finta che”».
In un momento così difficile sembra strano dire “fate finta”…
«C’è differenza tra fantasticare e mettere in moto un meccanismo positivo che libera energia. Il “fare finta”, il “to pretend” degli anglosassoni, è immergersi nell’obiettivo che voglio raggiungere. Studiando questi meccanismi mentali abbiamo visto che è tipico dei campioni: quando si immaginano in una gara riescono a vedersi mentre la affrontano. La maggior parte delle persone si visualizzano da fuori, come se guardassero un film. Il viverla da dentro, invece, ti mette nella condizione di provare quelle sensazioni e di fare tua quell’esperienza prima ancora di realizzarla. Ed è molto più di un gioco da bambini, è la chiave per riuscirci davvero».
Un saggio che dà coraggio
E se dietro le incertezze che ci angosciano si nascondessero nuove opportunità? E se quella debolezza che ci ostiniamo a nascondere ci aiutasse a diventare migliori? Per scoprirlo basterebbe uscire dalla nostra comfort zone e provare a rimetterci in gioco spogliandoci dei nostri preconcetti. Ne parlano lo psicologo dello sport Giuseppe Vercelli, e la coach Gabriella D’Albertas in Antifragili. Fai della fragilità il tuo punto di forza e dell’incertezza un cavallo di battaglia (Feltrinelli): un libro che, tra esempi pratici e spunti di riflessione ci spiega che quando smettiamo di negare le nostre debolezze troviamo la vera forza. La forza degli “antifragili”.