Qualche settimana fa ho confessato di aver realizzato, durante la Quarantena, che «gran parte di ciò che sono lo devo al fatto di non sapere dove siano riposte le scope, le spugne, i detersivi». Pochi giorni dopo, Cristina mi ha scritto una lettera che continua a tornarmi in mente e di cui forse non mi libererò finché non l’avrò condivisa qui:
«Mi sono guardata stamani, pulendo casa prima che la tribù si svegli, ordinando, aspirando, cambiando letti e lenzuola. Davvero non ho speranza? Davvero la mediocrità del mio lavoro (un ripiego, dopo la Laurea in Giurisprudenza), il tempo che impiego in casa, che sottraggo alla formazione e all’approfondimento, è dovuto al fatto che non posso permettermi che un’altra persona al posto mio sappia dove sono i detersivi? Probabilmente è vero. Io non voglio arrendermi, né alla mediocrità, né alla possibilità di avere nel lavoro le stesse chance di mio marito, che non sa dove sono scope, stracci e detersivi. La maggior parte delle donne moderne sono simili a me, non possono esprimersi al massimo perché oberate da compiti che sembrano appartenere solo a noi. E non parlo solo di esprimersi nel lavoro, ma penso a chi ha scelto di crescere i figli, di accudire i familiari, ma non riesce a prendersi del tempo per sé».
Cara Cristina, care lettrici, vi racconto una storia. Lei fa l’avvocato, e anche con discreto successo. Alla nascita della prima figlia, suo marito continua a far carriera, mentre lei chiede il part-time, cadendo nella trappola di guadagnare la metà e lavorare quanto prima. All’arrivo della seconda figlia, si domanda se addirittura abbia senso tornare in ufficio: per le finanze (e la salute mentale), le converrebbe restare a casa. Si arrovella in questo dubbio fin quando decide di cambiare lavoro. Al colloquio, porta con sé la piccola di 3 mesi e parla chiaro al suo esaminatore: vuole un lavoro a tempo pieno e ben pagato per potersi permettere colf e baby sitter, vuole la flessibilità di gestire il tempo lavorando da casa o scappando via dall’ufficio per andare a prendere le bambine all’occorrenza. Quel lavoro lo ottiene. Ma il lieto fine di questa storia inizia quando lei capisce che deve dare voce ai suoi bisogni. Quando si accorge di essere responsabile della propria felicità più di quanto fosse disposta ad ammettere.
La donna di cui vi ho raccontato è Michelle Obama prima che diventasse first lady. Michelle Obama è una come noi. Una che non ha mai potuto contare sul marito per la gestione domestica. Ma che a un certo punto si è accorta di essersi troppo impegnata a prendersela con Barack, perdendo di vista cosa poteva fare per se stessa. Facciamo come lei. Urliamo i nostri bisogni. A noi stesse, ai datori di lavoro e, siccome non abbiamo sposato il presidente degli Stati Uniti, anche ai nostri compagni. E lottiamo come pantere perché questi bisogni vengano rispettati.