Prima invocate, poi criticate e ora oggetto persino di proteste legali: le quote rosa fanno discutere anche negli Stati Uniti. In California sono arrivate le prime denunce da parte di aziende che intendono fermare la legge che ne prevede l’introduzione entro fine anno, con l’obbligo di avere almeno una donna nei consigli di amministrazione, pena multe salate (dai 100mila dollari). La norma è considerata “umiliante” per le lavoratrici e professioniste, e incostituzionale perché crea distinzioni (in questo caso di genere) tra cittadini.
Le quote rosa discriminano?
«Sì, le quote rosa discriminano, ma servono perché l’obiettivo è aprire a tutti i talenti disponibili. Se così non fosse i dati non lascerebbero scampo: si dovrebbe pensare che gli uomini siano oggettivamente più bravi delle donne, visto che meno del 5% dei CEO (amministratori delegati, Ndr) di Fortune 500 è donna» spiega Riccarda Zezza, amministratore delegato di Life Based Value e ideatrice di MAAM, programma di formazione che trasforma la maternità e la paternità in un master di competenze. Secondo la ricerca Life and leadership after HBS della Harvard Business Review (2014) solo il 41% di neolaureate nel prestigioso ateneo americano va a ricoprire posizioni dirigenziali, contro il 57% dei colleghi uomini. Come può accadere? I problemi sono almeno tre: «È naturale scegliere chi ci è simile: lo capiamo meglio e più velocemente, ci fa sentire al sicuro: quindi un maschio tende a scegliere un maschio, anche senza voler discriminare. In secondo luogo le donne hanno caratteristiche di leadership diverse, sono per esempio meno assertive» spiega Zezza. Una ricerca ha confermato che questa peculiarità è considerata positivamente in un uomo, mentre è giudicata “aggressività” (negativa) in una donna. «Ma è proprio questo su cui dobbiamo insistere: occorrono qualità differenti per crescere: se le donne fossero uguali agli uomini, basterebbero questi ultimi» commenta la co-fondatrice di MAAM, secondo cui esiste un terzo problema: «Le donne sono anche caregiver: hanno oggettivamente anche altro da fare, si occupano di più dimensioni, che sono in grado di gestire, ma che richiederebbero di rivedere tempi e modi del lavoro, a beneficio anche degli uomini».
Le quote servono?
«Servono perché bisogna forzare un sistema che altrimenti non cambia, lo dimostrano i dati, ma non dovrebbero essere di minoranza, bensì di parità (50%)» spiega Riccarda Zezza. Eppure anche in Italia diverse regioni, come Friuli Venezia Giulia e Sicilia, hanno detto “no” considerando le quote rosa degli “aiutini” che sminuiscono il merito femminile. Nel suo libro Pink Tank. Potere alle donne, donne al potere (Fandango) Serena Marchi intervista decine di esponenti politiche: «A prescindere da chi è pro o contro, nessuna è contenta di essere definita “quota”. C’è però la convinzione che si tratti di uno strumento introdotto non per favorire una categoria svantaggiata, ma come misura temporanea per colmare le differenze e cambiare la società, un’occasione per dimostrare che le donne valgono. Nessuna riesce a immaginare una società divisa in quote, perché questo aprirebbe la strada a una categorizzazione sempre più spinta: occorrerebbe, ad esempio, prevedere anche un certo numero di persone di colore o di orientamento sessuale differente, ecc».
Non servono più donne, ma meno uomini (incompetenti)
La provocazione arriva da Tomas Chamorro, che ne ha parlato a Roma proprio in questi giorni. L’autore del libro Come mai così tanti uomini incompetenti diventano leader? (E come impedirlo) (Harvard Review Press) ritiene che il problema non sia una selezione troppo rigida per le donne che ambiscono a posti di responsabilità, quanto nella eccessiva indulgenza con cui vi accedono gli uomini, anche senza averne le competenze. «Le società si fonda ancora su regole obsolete, scritte da una minoranza (maschile) e che quindi facilitano la vita (inconsapevolmente, implicitamente, senza cattiveria alcuna, ma solo perché è naturale che sia così) di chi appartiene a quella minoranza, escludendo gli altri» commenta Zezza.
La “porta di cristallo”: discriminate fin dai curriculum
Secondo il Women in the Workplace 2019 sull’occupazione femminile, a cura della McKinsey e Lean In fondata dalla direttrice di Facebook Sheryl Sandberg, le donne subiscono discriminazioni a partire dal proprio curriculum: presentato alternativamente con un nome maschile o femminile, ottiene una valutazione differente e superiore in caso si pensi che si tratti di un uomo. Si tratta della cosiddetta “porta di cristallo”, che impedisce persino l’ingresso nel mondo del lavoro alle candidate femminili e a cui si aggiunge il soffitto di cristallo, ossia la difficoltà a raggiungere ruoli di vertice per le donne.
E in Italia? Dalla legge agli stipendi
Secondo l’Executive Outkool 2019 che analizza le società quotate in Borsa, il numero di donne nei consigli di amministrazione in Italia è arrivato al 36,5%, crescendo di sei volte in 8 anni, da quando cioè è stata introdotta la legge sulle quote rosa (120/2011). Nonostante la norma, solo l’11,9% dei ruoli esecutivi è affidato a donne (rispetto al 32% delle dirigenti) e la differenza di retribuzione può arrivare anche al 70%, pari a circa 200mila euro all’anno. Il gender gap aumenta in proporzione al volume d’affari della società quotata in Borsa. «È stata importantissima, perché ha permesso di modificare i consigli di amministgrazione un po’ forzatamente, facendo entrare donne, ma anche giovani. In vista della scadenza (si prevedono quote di genere per tre mandati da tre anni ciascuno) sono stati presentati disegni di legge per prorogarla, perché 9 anni sono un arco temporale troppo breve per modificare la cultura. Inoltre il ritmo di crescita delle donne nei ruoli dirigenziali è ancora lento (+1% all’anno)» spiega Barbara De Muro, Avvocato di ASLA, Associazione Studi Legali Associati, che ha promosso ASLAWomen, sezione legata alle pari opportunità. Si può agire anche a livello comunicativo: la legge in California prevede la pubblicazione sui siti web delle società che si conformano alle norme di legge, che dunque risultano virtuose, mentre per le inadempienti sono previste multe. In Italia sono contemplate, ma non ce n’è stato fortunatamente bisogno» aggiunge De Muro.
Mamma lavoratrice: i figli soffrono?
A sorprendere è anche un risultato del European Value Study, secondo cui il 75% degli italiani (comprese le donne) crede che i figli delle lavoratrici soffrano: «Ci sono anche dati secondo cui invece avranno da grandi una vita professionale più soddisfacente. Probabilmente le ricerche riflettono un bagaglio culturale passato. Se il modo di lavorare cambiasse – come consente la tecnologia – sarebbe meno difficile seguire anche la famiglia. Comunque il livello di cura dei figli non dovrebbe scendere, ma essere condiviso in modo più equo tra i genitori (al 50%?)» dice Zezza. «È solo una questione culturale, come dimostra l’esempio dei Paesi del nord Europa: lì le quote rosa sono state introdotte tempo fa e ora non servono più» conferma Marchi.
Greta Thumberg e il cambiamento nei giovani
«Io ho grande fiducia nei giovani, per loro le differenze di genere contano meno. Basti pensare a Greta Thumberg: per chi appartiene alla mia generazione, quella dei quasi quarantenni, lei è una giovane donna che sfila in piazza. Per i ragazzi è solo una giovane che sfila in piazza. Credo occorra un cambiamento sociale, a partire dalle famiglie e dalle madri, come me, di figli maschi: dobbiamo educarli fin da piccoli, nel quotidiano, ad esempio ad apparecchiare la tavola, stendere un bucato o mettere in ordine la propria camera, insegnando loro che non sono compiti prettamente femminili, per arrivare a fargli comprendere che i ruoli possono cambiare» dice Marchi.