Recita l’antico adagio che non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca; vale per tutto e la maternità non fa eccezione. Di recente ho letto L’arte di saper fallire di Elizabeth Day e lo cito perché, tra i propri fallimenti, la scrittrice inglese colloca anche i tentativi di inseminazione non andati a buon fine. In un discorso molto ampio sull’accezione da dare alla sconfitta per non sentirsene sopraffatti, la Day riconosce che la mancata riuscita del proprio desiderio di maternità le ha tuttavia permesso di vivere altre esperienze che differentemente le sarebbero state precluse, come partire una mattina per Los Angeles e trascorrere 3 mesi in un appartamento trovato su Airbnb. Ora, intendiamoci: non è che tutte noi, figli o no, possiamo alzarci la mattina e partire per Los Angeles. Ma il punto è un altro: ammettere che la maternità dà e la maternità toglie. Chi la desidera sacrificherebbe ogni cosa pur di conoscere il proprio bambino – tempo, salute, soldi. Dall’altra parte, chi è madre a volte si ritrova a provare piccoli moti di invidia verso chi dispone della propria libertà.
Collocare sui due piatti della bilancia ciò che si riceve e ciò cui si rinuncia e aspettarsi che vada sempre in pari forse è da ingrati. Ci sono giornate in cui uno dei due piatti va giù come gravato da un bel peso di piombo. E anche questo è giusto dirlo: le giornate no esistono, quelle in cui si pensa di aver sbagliato tutto pure. Anzi, è importante normalizzarle, per il bene dell’autostima e della sanità mentale delle madri. Bruno Bettelheim scriveva che il genitore non deve sforzarsi di essere perfetto, ma «sufficientemente buono». La perfezione non è alla portata dei comuni esseri umani, concludeva. Questo le madri lo sanno, altroché. Ogni mattina una madre si sveglia e si chiede: Ho fatto bene? Ho fatto male? Ho fatto troppo poco? Ho fatto troppo? A certe madri, Cartesio fa un baffo: lo scetticismo metodologico è alla base delle loro giornate – della mia, sicuramente. La maternità rende anche un po’ filosofe.
Ci sono varie altre qualità che la maternità implementa o materializza: per esempio io non sono mai stata una persona paziente. Sono del segno dell’Ariete, non fa per me. Però se la pazienza può diventare uno strumento di sopravvivenza, persino l’Ariete la può sviluppare. Ho imparato a contare fino a dieci prima di parlare. E di agire. Perché se vuoi insegnarlo a dei bambini (e i bambini sono tutti Arieti: impetuosi e travolgenti) per prima cosa devi farlo tu. Ho imparato che non posso controllare tutto: i bambini sfuggono al controllo.
Diceva Khalil Gibran: «I tuoi figli non sono figli tuoi». Bel giochino di parole che rimanda a una verità che ogni madre fa fatica ad accettare: quella che è da lei avvertita come una simbiosi, è destinata a cessare. «Tu sei l’arco che lancia i figli verso il domani» (sempre Gibran). Quant’è difficile prendere la mira, anche perché il bersaglio bisognerebbe lasciarlo individuare alle frecce. Come fa l’arco a non interferire? E quindi anche sul controllo la mamma deve fare un grande lavoro.
«Che dire? È faticoso, non lo si può nascondere. Però poi vedi La gioia dell’infanzia, il divertirsi con poco e niente, l’eccitazione, la continua scoperta. Vedi una luce nei loro occhi che prima o poi perderanno e ti rendi conto che è un privilegio»
Anni fa, Salani pubblicò il grazioso e divertente libretto illustrato 31 usi per una mamma: autista, parrucchiera, cerotto, sedia a sdraio, spingitrice di altalena e così via. Per questi 31 usi e per i molti altri non citati ci vuole tempo. E il tempo è democratico: 24 ore per tutti. Nelle mie giornate no, quelle in cui sul piatto della bilancia c’è un piombo da 5 chili, la sensazione di non disporre del mio tempo è quella più irrisolta. Perché poi ovviamente c’è il senso di colpa: ma come, non vuoi passare tutto il tuo tempo con tuo figlio? Ehm. Non proprio tutto o non proprio tutti i giorni. Si ha diritto a del tempo per sé. Per leggere un libro, per fare una passeggiata, per incontrare un’amica, per lavorare all’uncinetto, per guardare un po’ di tv (in casa mia mica la puoi accendere la tv, a meno che non si siano già coricate le figlie. In caso contrario te le trovi sul divano a lamentarsi che non hanno alcun interesse per Inghilterra-Germania, nemmeno se c’è il principino George sugli spalti). Ma il senso di colpa delle madri non può rimuoverlo neanche Bruno Bettelheim con tutte le sue belle parole.
Che dire? È faticoso, non lo si può né lo si deve nascondere. Però poi vedi nei bambini qualcosa. La gioia dell’infanzia, il divertirsi con poco e niente, l’eccitazione per tutto quello che è nuovo, la continua scoperta. Vedi una luce nei loro occhi che prima o poi perderanno e ti rendi conto che è un privilegio poterla riconoscere, poter cogliere quell’istante di cui magari loro non conserveranno memoria, ma tu sì, e quando ci ripenserai ti riscalderà il cuore. Come pure è un privilegio essere inclusi nei loro giochi: se glielo si permette sono in grado di stanare il bambino nascosto dentro di te, ancora capace suo malgrado di farsi prendere dalla ridarella per le cose sciocche dei bambini, che poi in verità sciocche non sono. Perché loro prendono tutto tremendamente sul serio, anche più degli adulti. La misteriosa sparizione della bambola Marie è un dramma da cui la famiglia intera non si è ancora ripresa, tanto da essere entrato nel nostro lessico famigliare lo straziante grido “Marieeeeeee!” quando non si trova più qualcosa. E se affidi un compito a un bambino puoi star certo che ci metterà un impegno che molti adulti dovrebbero emulare. È un impegno pieno di volontà, determinazione, amore. Talvolta si tinge anche di rabbia – i bambini e la rabbia hanno un rapporto tutto loro. E qui torna in gioco la necessaria pazienza, perché con un bambino arrabbiato ce ne vuole. Infinita.
A volte mi chiedo se riesco a essere la madre «sufficientemente buona» di cui parlava il saggio Bettelheim. Quella che fa sempre del suo meglio ma accetta l’imperfezione, la fallacità insita nella condizione genitoriale. Ci sono giorni in cui con sorprendente clemenza mi rispondo di sì, ma sono rari. Un domani la risposta me la daranno le mie figlie, che oggi sono bambine di 8 e 6 anni: spero lo facciano con pazienza. Infinita.