È una di quelle mattine in cui ho la testa per aria, mi hanno appena chiesto di scrivere un pezzo su cosa ci ha tolto e ci ha dato la pandemia e sto pensando di defilarmi per evitare un lungo elenco di cose trite e ritrite. Non posso invece sottrarmi alla mia vita di madre dicotoma, che comincia alle 7 del mattino, con un tavolo rotondo apparecchiato per quattro, due maschi bambini di 9 e 2 anni che si contendono i biscotti e un maschio adulto attempato che glieli sfila via non appena si distraggono. Poi, di corsa in macchina, tra argomenti da ripetere e gare a chi arriva prima allo sportello. Una fisicità continua e sfiancante, condita di brum brum e battute sulla cacca, che alle mamme delle femmine, mi dicono, è totalmente risparmiata. Mentre penso ai pro e i contro di questa follia epocale che stiamo attraversando, mi s’insinua il pensiero che forse con delle bambine appassionate di servizi da tè la mia vita sarebbe più semplice.

Certe volte mi sento accerchiata. Persino gli altri due componenti della famiglia sono maschi: un criceto venuto al mondo durante il lockdown e un cane spelacchiato di 13 anni. A Natale ho comprato una femmina di criceto per puro spirito di compensazione. Non era appassionata ai servizi da tè, ma sembrava più paciosa del suo compagno, che anzi approfittava di ogni suo momento di distrazione per metterla incinta. Dopo aver sfornato due cucciolate di 11 topolini l’una e aver ceduto la sua pancia all’assalto famelico di quei piccoli roditori senza denti, si è data alla fuga. Una notte ha aperto la gabbia e non l’abbiamo più trovata. Mi ha lasciato sola: unica esponente del genere in questa casa fagocitante di bisogni e pannolini.
«Mamma, Tommaso mi dice “Vai via” se cerco di baciarlo!».
Diego li chiama baci ma sono delle vere e proprie torture.
Ecco che il piccolo scoppia a piangere.

La mia dicotomia fonda le sue basi sull’impossibilità di vederli giocare insieme per più di due minuti consecutivi. Troppa differenza di età, sono due figli unici. E io una madre sdoppiata che cerca di mantenere un certo equilibrio. Basta un minuto sottratto all’uno e regalato all’altro per far scattare allarmi interiori percepiti come veri e propri soprusi.
«Quando torni?» puntuale la cantilena a ogni mia uscita. Il passo tra questo “quando torni”, che ha l’intonazione di una marcia funebre, e il “quando torni” che mi chiederanno a 13 anni con la speranza che un ritorno quasi non ci sia, è breve, lo so. Nell’attesa di quel giorno, però, devo trovare il tempo di pensare al pezzo senza fargli capire che sto pensando ad altro. Nel mentre mi muovo a vanvera con un dinosauro in mano. Beato Fedez, che dice di avere un figlio maschio che gioca con le bambole.

Mentre mi spertico tra queste lucubrazioni concludo che pensare un pezzo non significa scriverlo. Il punto è che da quando sono mamma la scrittura non è che un incastro tra i ritagli di tempo, una fuga che si lascia sempre dietro una scia di sensi di colpa. Eppure è il mio lavoro. Mentre i miei maschi spendono i loro 90 secondi di gioco accapigliandosi per l’ennesima macchinina, immagino le due bambine quasi coetanee che abitano nel mio universo parallelo mentre fanno finta di versarsi il tè. Sì, lo so, sono sessista e retrograda, ma tant’è.
«Diego, amore, vuoi fare il baby sitter che mamma ha un attimo da fare con il computer?».
«No».
«Non vuoi un euro in più nel tuo salvadanaio?». Una proposta bieca che nessuna mamma di femmina si è mai ritrovata a fare.
«Con un euro non ci compro neanche un Puzzones…».
Già, quei pupazzetti orribili che hanno il pregio di puzzare in modo inverecondo. Quanto mi manca quel servizio da tè.
«Facciamo 2 euro?».


«Una volta avevo una tastiera tutta per me, Nessun coprifuoco, nessuna fissazione con l’igiene. Ora Ho sostituito l’anarchia con la disciplina, la libertà euforica con il senso di responsabilità»


La consegna del pezzo è fissata per oggi. Che entri pure in casa un altro Puzzones. Invece no. A sorpresa mi dice: «Non li voglio. È mio fratello, non sono il suo baby sitter. Lo tengo d’occhio gratis». Di colpo accantona i modi burberi e lo prende per mano. Tommaso sorride come se avesse visto un supereroe, e basta questa improvvisa morsa al petto ad azzerare qualunque fatica, e a lasciare il campo all’inventiva.

Cosa mi ha tolto e cosa mi ha dato la pandemia? Per evitare banalità devio su cosa piuttosto mi ha tolto quella strana coppia che adesso si sorride per più di 90 secondi. Il moro e il biondo. Lo scricciolo spilungone e il nano tracagnotto. Una volta avevo una tastiera tutta per me e il tempo del mondo a disposizione. Nessun coprifuoco, nessuna fissazione con l’igiene. Ma soprattutto: la mente sgombra dalle paure che quei due piccoli esseri indifesi alimentano a dismisura. E forse è proprio il tentativo di tenerle a bada e la lotta quotidiana con me stessa nel desiderio di diventare una persona migliore ad aver reso quel tempo risicato e contratto molto più utile e focalizzato. Ho sostituito l’anarchia con la disciplina, la libertà euforica con il senso di responsabilità, e il disinteresse con la voglia di cura. Mi hanno tolto e mi hanno dato. Il cambio è stato uno sconquasso senza precedenti, non potrei neanche quantificarlo o metterlo a fuoco. Le dita scorrono sulla tastiera, parlo del Covid o della maternità? Forse sto facendo un pastrocchio.

«Mamma?».
L’immancabile interruzione.
«Giochiamo a Buio?» chiede Tommaso. Diego annuisce con gli occhi tondi di speranza. Buio è il gioco che qualche volta ci concediamo tutti e tre insieme. Ci infiliamo sotto le coperte del mio letto, io al centro con il braccio sollevato e loro che si accucciano accanto a me frementi. Nella penombra li sento ridere. E il bilancio va gambe all’aria. Quello che mi hanno dato supera di gran lunga quello che mi hanno tolto. Sotto queste lenzuola spariscono tastiere abbandonate e femmine immaginarie, i Puzzones odorano di tè e i miei due piccoli maschi sono l’unica cosa di cui mi interessa scrivere.

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