Con i ragazzi che commettono i reati vale un po’ lo stesso che con gli immigrati: la realtà percepita è molto diversa da quella reale. Come per gli extracomunitari molti pensano che ci stiano invadendo, così per i minori che delinquono l’opinione comune è che i numeri siano altissimi. Percezione che fluttua in base all’ondata delle notizie su risse, movida violenta, aggressioni nelle nostre città. Eppure i numeri sono tutt’altro che alti.
Una ricerca appena condotta dalla società di data management Kantar su mille persone, racconta un’Italia impaurita dai ragazzi “impossibili” laddove, più che impossibili, possiamo dire che siano invisibili, nel senso che rischiamo di non occuparcene abbastanza.
La percezione e i dati veri
I reati commessi dai minori nel 2020 sono stati 30mila (dati del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità), ma solo un italiano su 10 si avvicina al numero giusto. In media si pensa che siano stati 750mila e il 28 per cento (un quarto) pensa addirittura a un milione. In pandemia i reati sono diminuiti ma due su tre ritengono che siano aumentati. Tre quarti dei reati sono stati commessi da italiani. Ebbene, una persona su due pensa che i responsabili siano extracomunitari. Il 70 per cento degli italiani insomma è molto preoccupato dalla devianza giovanile ma, a sorpresa, solo il 16 per cento indica il carcere come soluzione. Per recuperare i ragazzi, cioè, meglio le comunità rieducative per una persona su tre.
Il carcere non funziona
Che il carcere funzioni poco, si misura in base al tasso di recidiva che per chi sconta la pena interamente in carcere è superiore al 60%. Nel caso delle misure alternative, invece, non supera il 20%. Spiega Lamberto Bertolé, presidente della cooperativa sociale Arimo, che dal 2003 aiuta ragazze e ragazzi con disagio. «Queste percentuali attestano l’inefficacia della detenzione, un fallimento che si concretizza in ragazzi che entrano in carcere da giovanissimi per uscirne da adulti o non uscirne mai più. Perseguire strade alternative non significa scegliere soluzioni più leggere, piuttosto scommettere su pene più efficaci. Come la “messa alla prova”, una possibilità garantita dalla legge 488 del 1988 (la riforma del codice penale minorile) che permette ai giovani di riscattarsi prima ancora della sentenza, in modo da evitare la condanna».
L’appello delle comunità
Ma le comunità dove sperimentare questa rieducazione sono spesso in difficoltà. La Cooperative sociale Arimo inaugura appunto un Osservatorio annuale per studiare, capire e interpretare il mondo degli adolescenti con problemi. Una complessità non etichettabile e non riducibile facilmente a schemi, che va indagata con preparazione e soprattutto motivazione: «Mancano gli educatori formati, aggiornati e motivati. I minori negli anni sono cambiati. È indispensabile lavorare in sinergia con i servizi neuropsichiatrici del territorio e creare reti di sostegno per intercettare in tempo i giovani e il loro disagio. Non tutti i ragazzi con problemi delinquono, non tutti i ragazzi con disagio psichiatrico sono malati. I giovani vanno studiati e bisogna capire che ci sono molte zone d’ombra prima di arrivare a commettere un reato. E che se un ragazzo delinque, lo fa per chiedere aiuto, per chiedere risposte dagli adulti. Se queste non arrivano, l’asticella si alza sempre di più».
Bassa delinquenza ma forte disagio
Uno studio comparativo del 2018 rivela che l’Italia ha il tasso più basso di delinquenza minorile rispetto agli altri paesi d’Europa e agli Usa: su 100mila abitanti, 27 sono stati i minori protagonisti di reati contro i 421 di Danimarca e Lussemburgo. Ma ciò non vuol dire che i nostri ragazzi non vivano profonde difficoltà. I dati penali insomma sono solo la punta di un iceberg, come sostiene Francesca Perrini, Dirigente del Centro per la Giustizia minorile della Lombardia. «Questi dati non fotografano il disagio giovanile generale, quello che si ferma prima della commissione del reato e che noi giudici – di fronte al singolo ragazzo – dobbiamo saper leggere. Per esempio su 1700 ragazzi segnalati in Lombardia, ce ne sono almeno il doppio ai limiti della devianza e con gravi problemi, che sono esplosi durante la pandemia, un vero detonatore di situazioni preesistenti. In questo disagio ci sono anche i ragazzi con problemi psichici. Come li gestiamo? Dove li ospitiamo? La sfida di oggi è creare comunità a metà tra il sociale e il terapeutico, proprio per ragazzi problematici ma non psichiatrici».
I contesti più difficili
Molte volte il contesto intorno ai giovani fa la differenza e rischia di compromettere il recupero in comunità. Ne sa qualcosa Roberto Di Bella, presidente del tribunale dei minori di Catania, che per 25 anni è stato giudice minorile a Reggio Calabria e ha avuto a che fare con la ‘ndrangheta. «Ci siamo trovati a dover allontanare i minori dalle famiglie per dare loro la libertà di scegliersi il proprio futuro. Il contesto era troppo compromesso. Lì non si trattava di rieducare nessuno: non avremmo mai chiesto di rinnegare i padri e le madri, ma solo di domandarsi se veramente volevano per il proprio futuro la strada che quelle famiglie avevano scelto per loro. Così abbiamo attivato una rete con le associazioni, la chiesa, gli enti, le famiglie affidatarie e dato vita al progetto “Liberi di scegliere”. Dopo un primo momento di forte opposizione, le madri hanno capito, alcune sono perfino diventate collaboratrici di giustizia e molte ci hanno chiesto aiuto. Sono le cosiddette vedove bianche, donne tra i 25 e i 40 anni, con altri figli piccoli, provate dai lutti e dalla carcerazione dei mariti: si sono rivolte a noi per mandare via i figli e andare via loro stesse da quei luoghi, rifarsi una vita». Una rieducazione, insomma, anche per gli adulti.
Il tempo del recupero non è eterno
Questi contesti sono estremi, e noti per le loro difficoltà. Ma un ragazzo è sempre un ragazzo, ovunque. E noi adulti dobbiamo occuparcene al più presto perché il tempo del recupero non è eterno. Se ci giriamo dall’altra parte, lo condanniamo alla pena dell’invisibilità, che è una sorta di ergastolo nascosto.