Un ragazzo si presenta a un centro per il recupero di uomini maltrattanti di Pordenone e chiede aiuto. Dice: «Non voglio diventare come Filippo Turetta, aiutatemi prima che sia troppo tardi». 

Perché ci colpisce un uomo maltrattante che chiede aiuto

Questa richiesta d’aiuto è dirompente e fa il giro del web. Ci colpisce nel profondo perché tutti subito pensiamo alle foto di Turetta, a quella faccia da bravo ragazzo che nasconde una freddezza da killer, alla sua ossessività paranoica quando non voleva che Giulia uscisse con le amiche, alla sua mano che mentre Giulia agonizza in macchina la tiene ferma «perché dovevo guidare». Al gelo della sua voce quando durante l’interrogatorio dice di essersi fermato solo quando il coltello ha colpito l’occhio di Giulia perché «mi faceva effetto». Ma ci colpisce anche perché è molto raro vedere un uomo maltrattante che ammette di esserlo. «È difficile che un uomo abituato ad agire in modo violento riconosca anche di essere un violento» spiega la criminologa Roberta Catania. «È la struttura stessa del maltrattante a sostenere i suoi comportamenti, sostenuti a loro volta da una società in cui la relazione tra uomo e donna non è impostata sulla parità ma sulla prevaricazione. Per questo è difficile rieducare un maltrattante: perché prima di tutto è difficile ammettere di esserlo». 

I centri per uomini maltrattanti

Quindi un ragazzo che bussa alla porta di un centro per uomini maltrattanti è davvero una rarità. Lo è anche per il centro stesso (in questo caso, l’associazione Istrice di Pordenone), perché lì approdano uomini condannati per violenza, oppure inviati in Codice rosso dal tribunale. Uomini che hanno già commesso dei delitti e tentano un percorso di rieducazione ottenendo in cambio uno sconto di pena. Per questo ragazzo, e per quei pochi che – fa sapere il centro – ogni tanto si rivolgono a loro, si tratta invece di uno slancio sincero. 

Turetta simbolo del male assoluto

D’altra parte Turetta è diventato il simbolo del male assoluto: non avrebbe potuto essere diversamente, anche per il clamore mediatico che la vicenda ha suscitato. «Parecchi giovani mi scrivono su Instagram spaventati delle loro emozioni, e mi chiedono se i loro stati d’animo possano renderli simili a Filippo Turetta, se avere pochi amici possa rappresentare una spia a cui prestare attenzione, se arrabbiarsi con la ragazza voglia dire essere pericolosi» racconta la criminologa. «La potenza mediatica del caso Cecchettin ha almeno lasciato questo di buono: ha scardinato lo stereotipo della relazione violenta. E ci ha fatto capire che la prevaricazione dell’uomo sulla donna è una struttura del pensiero di cui faremo fatica a liberarci, se non con un enorme lavoro culturale». 

Un primo segnale di cambiamento

Pensarci in relazioni paritarie è per noi ancora molto difficile, come conferma Anna Campanile, operatrice di Voce donna di Pordenone, il centro antiviolenza che organizza incontri e seminari formativi e che, in uno di questi, ha intercettato l’attenzione del ragazzo che poi ha chiesto aiuto all’associazione Istrice. «La violenza sulle donne ha una matrice culturale molto profonda: dipende proprio dal modo di pensare di uomini e donne e da come uomini e donne si pensano in una relazione. Che ci sia un giovane uomo, tra migliaia di ragazzi aggressivi e maltrattanti, che si mette in discussione, che fa dei ragionamenti sul proprio agire e fa un’assunzione di responsabilità, è sicuramente un primo segnale di cambiamento. E lo dobbiamo alla morte di Giulia, a come sua sorella Elena e suo padre Gino siano andati oltre al rancore e al dolore per spingere un’intera società alla riflessione e al rispetto». Resta quindi una mosca bianca, questo ragazzo di cui non sappiamo il nome. Non celebriamolo però come un eroe: auguriamoci che, nella sua normalità, possa diventare lui il primo di tanti anti-Turetta.