L’agenzia europea del farmaco (Ema) ha detto sì alla somministrazione del Remdesivir, che diventa il primo farmaco anti-Covid. Nato come antivirale nella cura dell’Ebola, utilizzato anche negli Stati Uniti, è stato approvato con una procedura d’urgenza: «L’iter è stato velocizzato e, pur non essendo la soluzione definitiva, è il prodotto che ha presentato il miglior rapporto tra benefici e effetti avversi» spiega il virologo Fabrizio Pregliasco, direttore scientifico dell’Istituto Galeazzi di Milano. Somministrato via flebo riduce i tempi di cura, accelerando la guarigione dei pazienti infettati dal virus Sars-Cov2.
Cos’è e a cosa serve
Il Remdesivir è un farmaco antivirale sviluppato inizialmente per il trattamento dell’ebola, ma rivelatosi poco efficace. Con lo scoppio della pandemia è stato impiegato in modalità compassionevole, soprattutto a pazienti Covid in gravi condizioni che non rispondevano ad altri tipi di trattamenti. L’uso sperimentale ha mostrato come sia in grado d’interferire con l’RNA polimerasi, bloccando la produzione di materiale generico che permette al virus di riprodursi.
Accelera la guarigione
Uno studio americano ha mostrato che i pazienti trattati con Remdesivir si sono ripresi dopo circa 11 giorni, rispetto ai 15 giorni normalmente necessari ai soggetti trattati con placebo. «Con il via libera dell’Ema e non appena arriverà anche l’autorizzazione l’Aifa, si potrà utilizzare nei malati dai 12 anni in su, in particolare con problemi respiratori gravi. Altri studi italiani in corso stanno analizzando anche l’efficacia in casi moderati non gravi». Il trattamento prevede infusioni in vena 200 mg il primo giorno, seguite da altre somministrazioni (da 100 mg al giorno) per almeno 4 giorni e per non più di 9.
La cura solo in ospedale
Ma sarà commercializzato? Il Remdesivir è e sarà somministrato solo all’interno di strutture sanitarie, sia per la gravità della condizione dei pazienti, sia perché occorre monitorare la funzionalità di fegato e reni prima e durante il trattamento, a seconda dei casi. Perché il farmaco sia del tutto “abilitato” occorre il via libera della Commissione europea, che solitamente arriva dopo 60 giorni ma che in questo caso potrebbe giungere prima, data l’esigenza di poter disporne disporre al più presto. «Perché sia completato tutto l’iter, compreso quello italiano, servirà un mese o comunque non più di due» dice Pregliasco.
Effetti collaterali
L’agenzia europea per il farmaco ha analizzato i dati raccolti durante la sperimentazione e quelli clinici nei casi di somministrazione compassionevole e ha stabilito che i benefici sono maggiori dei rischi nei pazienti affetti da forme gravi di coronavirus. «Sicuramente gli effetti collaterali sono ridotti da un punto di vista generale e comunque inferiori a qualsiasi altra alternativa disponibile al momento» spiega il virologo.
Fase 3, quali alternative
Finora, infatti, erano stati utilizzati anche altri prodotti in via “compassionevole”, quindi su soggetti in gravi condizioni, ma alcuni si sono rivelati non adatti o con controindicazioni rilevanti: «Gli antivirali utilizzati nelle terapie contro l’HIV non hanno dato buoni esiti, così come neppure l’idrossiclorochina, sconsigliata poi anche dall’Oms. Al momento l’unico altro farmaco a cui si guarda con interesse è il desametasone» dice Pregliasco. Si tratta di un derivato del cortisone che sarebbe in grado di ridurre fino a un terzo il rischio di morte in pazienti gravi per Covid-19 e intubati. Il farmaco, studiato dall’Università di Oxford, non ha però ancora ottenuto il via libera della comunità scientifica né quello delle autorità. «L’altra alternativa è rappresentata dal plasma iperimmune anche se mancano ancora studi ampi. Si sono visti risultati positivi, ma purtroppo è stato somministrato solo verso la fine della curva epidemica» spiega Andrea Crisanti, professore di Microbiologia e microbiologia clinica all’Università di Padova.
Remdesivir, potrebbe servire con una seconda ondata
«Questo farmaco, in uso sperimentale anche in Italia, potrebbe risultare utile in caso di una seconda ondata epidemica o di focolai importanti» spiega Crisanti, che non esclude nuovi cluster anche nel periodo estivo, come accaduto a Mondragone e a Bologna, o all’estero. «È accaduto in altri paesi, come la Cina o la Germania, non vedo il motivo per cui l’Italia debba essere esente da nuovi focolai. Al momento stiamo beneficiando dell’effetto positivo del lockdown e delle misure di prevenzione (mascherine e distanziamento), oltre che del caldo secco, ma in autunno potrebbe capitare una nuova ondata. Dovremo essere pronti a intervenire e circoscrivere i casi, e poi a intervenire anche con farmaci adatti» aggiunge l’esperto. «La comunità scientifica è divisa sui rischi futuri, io sono ottimista e prendo atto che adesso ci sono pochi casi e non complessi. Ma dobbiamo stare attenti a controllare i focolai e soprattutto i possibili casi di importazione» spiega Pregliasco.