L’ultimo caso eclatante è stato quello della parlamentare grillina Giulia Sarti, già al centro dello scandalo rimborsi interno al suo partito, che ha dovuto fare i conti con un altro tipo di ricatto: quello riguardante alcune sue foto intime. Negli ultimi giorni, video e fotografie private di Sarti sono liberamente circolati su whatsapp fino a finire in rete, alla mercè di tutti. Al di là di ogni valutazione politica delle vicende che coinvolgono la parlamentare (che non ci discuteremo in questa sede), è importante tracciare una linea di demarcazione quando si trattano questi argomenti: Giulia Sarti è stata infatti vittima di revenge porn.
Giovedì 28 marzo, la Camera dei Deputati ha respinto un emendamento al decreto legge denominato “Codice rosso”, che avrebbe introdotto il reato di revenge porn. L’emendamento era stato proposto dalle opposizioni, da Forza Italia al Partito Democratico a Liberi e Uguali, ma è stato bocciato dai voti contrari di Lega e Movimento 5 Stelle. La proposta di legge sul revenge porn ha avuto sin da subito un andamento difficoltoso: il ddl che si discuteva in questi giorni sostituiva la precedente proposta presentata dalla deputata di Forza Italia Sandra Savino dopo la morte di Tiziana Cantone, rimasta per lungo tempo bloccata.
Ma cosa intendiamo per revenge porn? Il significato letterale di quest’espressione è semplice: si tratta della diffusione non autorizzata di immagini intime di persone coinvolte in atti sessuali, a volte riprese a loro insaputa. A diffondere quelle immagini spesso sono gli ex o persone nella cerchia di amici e familiari, mentre i luoghi di diffusione deputati sono le chat e i gruppi su Facebook e WhatsApp, sia chiusi che aperti, ma anche specifici siti e forum specializzati nella ricondivisione di materiale di questo tipo.
Un meccanismo difficilissimo da spezzare
In Italia ne abbiamo parlato molto spesso, anche recentemente, basti pensare al caso di un gruppo di 63 studentesse di un liceo di Modena che avevano l’abitudine di scambiarsi foto, anche erotiche, su WhatsApp. Quei file, intercettati da un compagno di scuola e da lui diffusi senza il consenso delle ragazze coinvolte, sono finiti in rete e ora potrebbero trovarsi potenzialmente nel telefono o nel computer di chiunque in Italia e nel mondo. Così funziona internet, dove stoppare la circolazione di immagini contro la volontà del soggetto è un’operazione quasi impossibile. Le foto e i video vengono infatti regolarmente scaricati e ricaricati da altri utenti che non hanno nessun contatto “reale” con quelli di partenza, creando così un circolo vizioso difficilissimo da spezzare.
Il caso di Tiziana Cantone
In Italia, il caso più conosciuto legato alla diffusione non autorizzata di immagini intime è quello di Tiziana Cantone, trentunenne originaria di Mugnano di Napoli che si è suicidata il 13 settembre 2016. All’incirca un anno prima, alcuni video che la ritraevano mentre faceva sesso erano diventati virali, impendendole di condurre, da quel momento in poi, una vita normale. Non del tutto consapevole del meccanismo che abbiamo descritto prima, Cantone acconsente inizialmente a una prima diffusione dei video, d’altronde si tratta di un gioco erotico tra lei, il fidanzato di allora, Sergio Di Palo, e alcuni uomini vicini alla coppia, ma quando i filmati si diffondono a cascata da WhatsAapp a Facebook, da Google ai siti di quotidiani, anche autorevoli, che la descrivono come il nuovo “fenomeno del web”, pagherà a carissimo prezzo il costo di quell’ingenuità.
Eppure Cantone ha utilizzato sin da subito tutti gli strumenti legali a sua disposizione per fermare la diffusione di quei video, ma la giustizia italiana non è al passo con la velocità delle immagini virali su Internet. I provvedimenti d’urgenza da lei richiesti non arriveranno in tempo per restituirle il suo – sacrosanto – diritto all’oblio. Se da una parte la mancanza di misure di sicurezza tecnologiche per contrastare il problema evidenzia l’incapacità da parte dei gestori di social network e servizi di chat di affrontare la questione, dall’altra è altrettanto evidente il buco legislativo su queste tematiche.
Il voyeurismo nell’era di Internet
Se pensi che contenuti di questo tipo si trovino solo negli angoli più nascosti della rete, quel dark web di cui abbiamo parlato nella prima puntata del nostro osservatorio speciale, beh, ti sbagli di grosso. I casi di revenge porn e di voyeurismo sono infatti all’ordine del giorno tanto che oggi assistiamo a una vera e propria “normalizzazione” di questi fenomeni. Di foto “rubate” alle dirette interessate, e il femminile non sembri casuale, perché sono principalmente le donne a essere vittime di questo tipo di ricatti, sono pieni i gruppi ristretti su Facebook e WhatsApp, così come esistono spazi dedicati alla raccolta di immagini di questo tipo in forum e altre piattaforme di discussione molto frequentate.
Un errore linguistico
Nel caso del revenge porn, però, c’è un problema linguistico di partenza, che molto probabilmente ha a che fare con la difficoltà di stabilirne i limiti legali. Lo stesso termine con cui questa odiosa pratica è conosciuta, quello di revenge porn, appunto, è un’espressione imprecisa utilizzata per indicare un atto di violenza grave, una nomenclatura vaga che riduce la violazione di privacy di un individuo a una categoria di gusto paragonabile a quelle che si possono trovare navigando sui siti pornografici. Non è così ed è bene specificarlo. Qualunque genere di pornografia implica soggetti consenzienti, professionisti o meno che siano e la necessità di trovare nomi più corretti non è una piccolezza. È fondamentale per cambiare l’approccio di fronte a una tipologia di crimine dalle radici antiche, ma che ha trovato nuovi modi per ledere le sue vittime.
Una nuova definizione: cosa significa NCII
In un recente annuncio reso pubblico da Facebook viene proposta una soluzione paradossale: che gli utenti condividano le proprie foto di nudo attraverso Messenger, in modo che il social network possa imparare a riconoscere i file ed evitarne così la diffusione non volontaria. In quello stesso annuncio, però, c’è un elemento interessante: l’introduzione del termine NCII (acronimo che sta per “non-consensual intimate imagery”, letteralmente immagini intime non consensuali), decisamente più adatto per descrivere il fenomeno di cui parliamo. Riformulare la definizione di revenge porn in NCII permette infatti di includere nello stesso insieme anche il voyeurismo e gli spy shot – un sottogenere di voyeurismo che consiste nel pubblicare foto scattate di nascosto in bagni, camerini e simili –, che sono poi categorie diverse di abusi che però funzionano sistematicamente allo stesso modo.
Come e dove avviene la condivisione
Nel caso di NCII ottenute da chat o videochat, la maggior parte delle vittime viene adescata nelle chat di incontri o nei social network tradizionali come Facebook. La fonte di fotografie “spy” invece è solitamente interna a gruppi che condividono le immagini e si sfidano a rubare scatti sempre più scabrosi. È impossibile controllare la diffusione di questi gruppi, presenti come chat di gruppo su WhatsApp e Messenger ma anche come veri e propri gruppi su Facebook o forum dedicati. Molti si presentano come forum di erotica per poi nascondere tra le proprie “stanze” una dedicata al voyeurismo e ad altre forme di foto intime rubate.
Ci sono utenti che si specializzano, partendo da una singola foto, nel raccogliere, attraverso lavori maniacali di ricerca immagini inversa, archivi interi della stessa persona, il più delle volte inconsapevole dell’utilizzo che viene fatto delle immagini che la ritraggono. Altri si producono in vere e proprie recensioni sugli strumenti migliori per spiare i vicini o da installare in bagni pubblici. E ovviamente ci sono quelli che le foto le scattano in prima persona, e le condividono.
Cosa dice la legge
Tutelare le vittime di questo tipo di molestie è molto difficile, perché spesso sono consenzienti nel momento dello scatto o delle riprese, ma non al momento della diffusione. E questa è una differenza fondamentale, che spesso dà il via alla cosiddetta sextortion, il ricatto in cambio della non diffusione di scatti. Ce ne aveva parlato Nunzia Ricciardi, il capo della Polizia Postale, a proposito di cyberbullismo.
Secondo il codice penale (articoli 610 e 615 bis) il voyeur può incorrere in due reati; la “violenza privata” e la “interferenza illecita nella vita privata”. Se non si tratta di immagini rubate in casa o in un luogo di proprietà ma dal web o da luoghi diversi da questo contesto, la vittima potrà fare ben poco. È il caso delle riprese rubate nei bagni pubblici, nelle palestre, nei camerini. I reati di questo tipo in Italia non sono puniti direttamente. Chi diffonde foto sensibili sul web verrà processato a seconda dei casi per diffamazione, violazione della privacy, stalking, tentativo di estorsione, trattamento illecito dei dati. Il reato è disciplinato meglio in paesi come Germania, Regno Unito, Australia, Israele e in 34 Stati degli USA.
Cosa si può fare per difendersi
Andrea Muzzi, Sales Engineer di F-Secure, azienda leader nell’ambito della cyber security, partendo dal presupposto che inviando foto intime via internet ci si basa innanzitutto su un rapporto di fiducia con il proprio interlocutore, sottolinea come sia fondamentale «mantenere un approccio critico con i servizi che usiamo, in particolare quelli gratuiti». L’analista poi, che ci ha anche detto di comprendere l’utilità di Facebook ma di non usarlo, aggiunge che neanche i servizi che permettono di dare una scadenza alle immagini che si allegano, come le Instagram Stories o Snapchat, garantiscono la sicurezza. «Anche se alcuni di questi comunicano agli utenti quando vengono fatti screenshot da altri utenti, ormai il danno è fatto».
Screenshot e video quasi incancellabili
Cancellare quegli screenshot è spesso più facile a dirsi che a farsi — ormai tutti gli smartphone offrono servizi di backup delle foto via internet, anche gratuiti, come Apple e Google Photos, e spesso è possibile recuperare foto e screenshot da altri dispositivi loggandosi nell’account del proprio telefono. Per cui, anche nel caso si conosca la persona che ha rubato la foto è quasi impossibile assicurarsi che non sia in grado di ottenerne una copia in un secondo momento. Video intimi, anche live, hanno lo stesso problema: registrare lo schermo di un telefono oggi è facilissimo e molti di questi strumenti non causano segnalazioni all’utente dall’altro lato della conversazione.
Come proteggere i propri dati
Bisogna ricordare, infine, che tutti i servizi che mediano le nostre comunicazioni – sia i big come Facebook o quelli relativamente più piccoli come le app di incontri come Tinder – fanno raccolta dati, e i loro livelli di sicurezza sono estremamente variabili. «Tutti dovrebbero dotarsi di strumenti per proteggere almeno parte dei propri dati, conoscere bene licenza dei servizi che usano, e gestire le impostazioni della privacy del proprio telefono». Ai genitori Muzzi consiglia di lasciare ai propri figli telefoni e tablet Apple. «Ho fatto un passaggio radicale da Android a Apple» ci racconta «assolutamente non per una questione di marca ma per una questione di sicurezza: Apple viene molto più incontro al genitore, offrendo sistemi di controllo capillari e permettendo di bloccare a determinate applicazioni l’accesso a fotografie, contatti o posizione geografica».
Cosa fare se qualcuno pubblica le tue foto
La prima reazione è di rivolgersi alle autorità. Carabinieri e Polizia di Stato hanno apposite sezioni dedicate all’investigazione di questo tipo di violazione della privacy e per quanto, come abbiamo visto nel triste caso di Tiziana Cantone, la legislazione in materia sia ancora in larga parte carente e/o lenta, rimane fondamentale denunciare chi diffonde foto private senza il consenso del diretto interessato. È importante anche rilevare l’assenza di una vera e propria rete istituzionale che si occupi dell’argomento sia dal punto di vista dell’educazione – che è educazione sessuale e tecnologica allo stesso tempo – che da quello del supporto psicologico delle vittime.
Oltre alle pur innumerevoli iniziative ministeriali indirizzate perlopiù alla sensibilizzazione – troppo generale, va detto – contro il bullismo e la sua declinazione in rete, una realtà che oggi costituisce la più ampia rete di supporto contro la violenza di genere è probabilmente quella di Telefono Rosa. Ne abbiamo parlato con la presidente della Onlus Gabriella Moscatelli, che ci ha ricordato come Telefono Rosa metta a disposizione avvocato e supporto psicologico per qualunque donna ne abbia bisogno, ma anche che «in Italia la legge non è particolarmente avanzata in materia, in particolare riguardo il problema del consenso del soggetto delle foto, che può essere informato o meno. Si è aspettato troppo per fare una legge vera contro questo tipo di problemi».
Un problema in attesa di soluzione
Moscatelli è convinta, allo stesso tempo, che parte del problema deve essere affrontato anche dalle aziende che gestiscono i servizi web, sebbene la responsabilità centrale resti nelle mani dello Stato: «Servono norme ben stringenti sui social network e una legge vera per tutelare le donne. Fatta bene, scritta bene». È facile pensare che il problema delle immagini intime su Internet non ci riguardi, magari perché ci fidiamo del nostro partner, eppure da un sondaggio svolto da due università australiane è emerso un dato che dovrebbe farci riflettere: una persona su cinque sa che proprie immagini intime sono state ricondivise su internet senza il proprio consenso. Come a dire che ci stiamo abituando al problema invece di provare a risolverlo.
Questo articolo è la seconda puntata della collaborazione tra Donna Moderna e The Submarine, il magazine online che si occupa di storie urbane, cultura, musica e tecnologia. Periodicamente pubblicheremo, sia sulla carta che online, contenuti ad hoc pensati insieme e scritti dalla redazione di The Submarine in esclusiva per il nostro giornale.
Ci concentreremo in particolare sul web, sulle sue novità e su come, pur non essendone il responsabile, sia diventato il veicolo di una serie di comportamenti a rischio: dal voyeurismo allo spaccio di stupefacenti sempre nuovi, dal cyberbullismo alla diffusione delle fake news. Qui trovi la prima puntata, dedicata al dark web.