Catene, violenze, restrizioni, morti. Nelle ultime settimane tanto si è parlato della docuserie di Netflix SanPa – Luci e Tenebre di San Patrignano, dedicata alla comunità fondata sulle colline di Rimini nel 1978 da Vincenzo Muccioli. A quasi 25 anni dalla morte del fondatore, SanPa ha acceso i riflettori su uno dei maggiori centri di riabilitazione per tossicodipendenti in Europa, in cui alla cura clinica e farmacologica si preferisce un «recupero residenziale a lungo termine» – come viene definito sul sito – per il quale centrale è il ruolo del gruppo, del tutor (solitamente un ex ospite della comunità) e dei “settori di formazione” (se ne contano 50: dalla coltivazione all’artigianato, passando per i reparti “cucina” e “regia”, ovvero i film da vedere la sera).

Il documentario, tramite video d’archivio e interviste esclusive, racconta i primi anni della comunità fino al 1995, sottolineando soprattutto i metodi coercitivi utilizzati da Muccioli. Da allora San Patrignano è cambiata, è evoluta rinnovandosi e, per certi aspetti, imparando dagli errori del passato. «In quel periodo sono accaduti innegabilmente fatti gravissimi» spiega oggi il presidente della comunità, Alessandro Rodino Dal Pozzo, entrato come ospite nel 1985. «Ma sarebbe ingiusto attribuire a San Patrignano un metodo basato sulla coercizione e sulla violenza, quando la realtà è sempre stata quella di una grande famiglia, unita da uno spirito di solidarietà e fratellanza».

Se da una parte ci sono le inchieste giudiziarie e la tragedia di vite spezzate (come nel caso di Roberto Maranzano, ucciso a calci e pugni nella macelleria di San Patrignano il 9 maggio del 1989; e di Natalia Berla e Gabriele Di Paola, di cui il documentario racconta gli inquietanti suicidi), dall’altra ci sono i numeri che testimoniano come la comunità abbia salvato la vita a tanti: nei suoi 270 ettari sono stati accolti oltre 26.000 ragazzi, circa 350 all’anno. E la quota di chi al termine del percorso consegue una laurea o una qualifica professionale si aggira intorno al 46%; addirittura al 90% quella di chi trova un lavoro. Come può, dunque, una realtà che in passato è stata toccata da inchieste e accuse pesanti – dal sequestro di persona fino all’omicidio – essere oggi punto di riferimento nel contrasto alla tossicodipendenza?

La comunità San Patrignano oggiImmagini della vita quotidiana di San Patrignano oggi. Il vitigno e
La comunità San Patrignano oggi
Immagini della vita quotidiana di San Patrignano oggi. Il vitigno e il caseificio (nella foto sotto) sono tra le 50 attività che impegnano gli ex tossicodipendenti e con i loro prodotti contribuiscono a circa la metà del budget di SanPa. Il resto arriva da donazioni e convenzioni.

La comunità di San Patrignano ai tempi di Muccioli

«San Patrignano si è strutturata negli anni affrontando importanti cambiamenti sia nelle attività sia nell’approccio educativo» continua Rodino Dal Pozzo. «Sono state introdotte figure professionali come psicologi ed educatori specializzati». Figure che prima, invece, mancavano. «Ma era inevitabile che non ci fossero» spiega Francesca, ex tossicodipendente entrata negli anni ’80 nella comunità, dove ha ricoperto nel tempo vari incarichi. «Non si può non contestualizzare: in quegli anni c’è stato un boom nel consumo di eroina, le famiglie arrivavano da Muccioli piangendo. In quella fase neanche lo Stato era pronto: l’unica “cura” era il Sert col metadone. Muccioli si è opposto a tutto questo». Commettendo, tuttavia, errori che oggi non si possono negare, come ammette lo stesso Rodino Dal Pozzo: «La complessità della realtà di allora è un tema ampio e delicato, in comunità arrivavano persone molto difficili. Dietro alla dipendenza spesso si nascondevano altri problemi e forse San Patrignano per alcuni non era il posto giusto».

Per Francesca, però, lo è stato. Oggi fa la cuoca a Cesenatico, è grata alla comunità e non rimpiange i 16 anni trascorsi a San Patrignano: «Io ho cominciato a farmi di eroina a soli 13 anni. A 17, dopo alcuni gravi furti, sono finita in carcere. Fu il giudice minorile di Bologna a chiamare direttamente Muccioli. Da lì è cominciato il mio percorso». Un percorso che, dal 1983, si è interrotto solo nel 1999. «Quando sono arrivata ero ingestibile. Poi Vincenzo (Muccioli, ndr) ebbe un’illuminazione: nonostante fossi una ragazza, decise di assegnarmi al gruppo vendemmia. Dopo il periodo traumatico in carcere, avevo bisogno di stare all’aperto, fare cose manuali». Francesca comincia pian piano a riprendere possesso della propria vita, che la porta nel ’91 anche ad avere un figlio all’interno della comunità. «Sono rimasta così a lungo» ricorda oggi «perché nel frattempo ho fatto da tutor a tanti. Era entusiasmante poter aiutare persone come me e vederle rifiorire».

Dopo la morte di Vincenzo Muccioli (1995) a guidare la comunità è stato fino al 2011 il figlio, Andrea Muccioli: «Lì qualcosa si è rotto: forse non ho capito le sue scelte. Oggi, però, dico che i cambiamenti che ha voluto, a cominciare dall’ingresso di specialisti, sono stati fondamentali».

La comunità di San Patrignano oggi

Oggi, non a caso, San Patrignano è molto più selettiva nella scelta dei suoi ospiti, come spiega Sofia, ragazza di 29 anni uscita dalla comunità l’anno scorso. «Per entrare occorre che la persona abbia davvero voglia di affrontare quel percorso, non c’è alcuna costrizione. Spesso è necessario già aver affrontato e superato le crisi d’astinenza o all’interno di comunità specializzate o, come nel mio caso, a casa. Quella raccontata nel documentario non è la SanPa che ho vissuto io».

La storia di Sofia comincia nel 2013: «Avevo 22 anni quando i miei genitori mi hanno portato a San Patrignano. Da mesi facevo uso di eroina, vivevo sotto i ponti e suonavo il flauto per raccogliere soldi. Appena entrata mi sono stupita: erano tutti giovani. Niente dottori, ma ragazzi come me che mi spronavano, mi esortavano a non mollare». Momenti duri ci sono stati, ammette Sofia: «Tante volte ho pensato di scappare. Il primo anno ho pianto praticamente tutti i giorni, ma le mie tutor mi hanno aiutato». Fondamentali sono state soprattutto le attività: «Per 4 anni sono stata assegnata al gruppo coltivazione dei fiori. Dopo il primo anno finalmente ho rivisto i miei genitori, dopo il terzo ho cominciato a tornare anche a casa».

L’ultimo step prevede lavori anche fuori dalla comunità: «Ho fatto volontariato in un centro medico: tutti i giorni facevo compagnia a malati terminali. È stato un momento determinante per me». Forse anche per questo Sofia, come capita a tanti, decide di restare più a lungo del necessario a SanPa: «Ho fatto da tutor ad altri ragazzi che arrivavano e nel frattempo ho ripreso i miei studi di lingue orientali». Studi conclusi con una laurea e un master. «Non dico che sia facile» dice Sofia. «Spesso ancora adesso sento in bocca i sapori della droga. Ma non c’è prezzo per i sacrifici che ho affrontato per rinascere. Per me SanPa significa una nuova opportunità. Che non voglio buttar via».

SanPa, una docuserie che fa discutere

SanPa – Luci e Tenebre di San Patrignano (sopra) è la prima docuserie italiana prodotta da Netflix, scritta da Carlo Gabardini, Gianluca Neri e Paolo Bernardelli con la regia di Cosima Spender. È disponibile sulla piattaforma dal 30 dicembre e, nelle sue 5 puntate, ripercorre i 15 anni iniziali della storia della comunità di recupero per tossicodipendenti di Vincenzo Muccioli, mostrandone soprattutto i lati più oscuri e inquietanti.

Poche ore dopo l’uscita di SanPa, San Patrignano ha pubblicato una nota ufficiale in cui ha dichiarato di dissociarsi completamente dalla ricostruzione, ritenendo il racconto troppo parziale. La serie, però, sin dalla sua messa in onda è stata accolta molto positivamente dal pubblico e dalla critica. SanPa sarà distribuita in 30 lingue e 190 Paesi.