Spero che la tragica morte di George Floyd porti davvero le persone a riflettere su quello che sta succedendo. Il razzismo riguarda la gente nera, certo, ma non solo: tocca tutti. Non può esistere una società felice se una parte della sua popolazione soffre così tanto». Sono parole ferme e cariche di angoscia quelle della scrittrice Sarah Ladipo Manyika all’indomani dei funerali di George Floyd, l’afroamericano ucciso dalla polizia a Minneapolis il 25 maggio. Dopo averlo fermato, un agente l’ha bloccato soffocandolo col ginocchio sulla gola per 8 lunghissimi minuti. Alcuni testimoni hanno filmato e diffuso la scena. La rabbia è esplosa – nei ghetti, nelle strade, nelle piazze, sui social, in America, nel mondo – all’urlo di I can’t breathe, “Non riesco a respirare”, la frase pronunciata da Floyd mentre moriva.
Chi è Sarah Ladipo Manyika
Sarah Ladipo Manyika è nata in Nigeria 52 anni fa. La madre è inglese, il padre è un pastore anglicano nigeriano: tecnicamente, come dice lei, è metà bianca e metà nera. Cresciuta in Africa, Inghilterra e Francia, da 20 anni vive a San Francisco: «Una città nota per essere aperta, tollerante e liberale, però il razzismo lo senti anche qui. Perché negli Usa è sistematico: non da ieri, non dalla scorsa settimana, esiste da molto, molto tempo. E da molto, molto tempo gli attivisti chiedono di cambiare le cose nel sistema e nelle istituzioni. Eppure non è successo nulla. Le black lives, le vite dei neri, non sono trattate allo stesso modo delle vite dei bianchi. Lo vediamo in questi giorni, l’abbiamo visto in passato. È lunga la lista di ragazzi neri uccisi dalla polizia, che si suppone debba invece proteggerli. L’assassinio di Floyd è stato filmato. Quanti sono invece quelli che non vengono ripresi con un video, trasmessi sui social, di cui non sappiamo alla fine nulla? Oggi se ne parla perché la gente è arrabbiata e protesta. Ma la storia ci insegna che le persone, eccetto i neri, dimenticano, vanno avanti con la solita vita» dice.
«Non sono afroamericana, ma sono nera e vivo in America. Ho un figlio di 20 anni, nato qui, e un marito nero. E sono preoccupata per loro»
Come Cameron Welch, il 18enne che ha postato su Tik Tok un video con alcune regole che la madre gli fa seguire da quando aveva 11 anni per evitare guai con la polizia, Sarah ha dovuto insegnare a suo figlio Julian come comportarsi. «Qualche anno fa ho scritto un saggio intitolato Coming of age in the time of the hoodie, Diventare grande al tempo della felpa col cappuccio: raccontavo cosa significa crescere un ragazzo nero in America. Non è una sorpresa che noi mamme dobbiamo dire ai nostri figli di fare attenzione a come si vestono, di non indossare felpe col cappuccio quando fa scuro, di non usare le pistole ad acqua, di non spaventare le ragazze bianche se vanno in giro di notte. Tutta una serie di cose che i neri provano sulla propria pelle e che possono avere conseguenze sulla salute mentale ed emotiva. Perché se sei sempre preoccupato e sul chi vive, se non ti consideri al sicuro, prima o poi ne risenti».
Il razzismo «è fatto di pregiudizi e stereotipi: se sei un maschio di colore, sei ritenuto una minaccia»
Non è una questione di genere: «Noi donne siamo prese meno di mira, però siamo le madri, le sorelle, le compagne, le figlie di uomini neri. E le 2 cose vanno di pari passo». Senza dimenticare i pregiudizi inconsci. «Alcuni anni fa stavo facendo shopping. Cercavo dei regali per i miei nipoti a Londra e ho chiesto a Julian, che allora aveva 15 anni, di venire con me. All’improvviso non l’ho visto più. Era uscito perché la security continuava a seguirlo: era un ragazzo nero, alto, presumibilmente un ladro. Potrei raccontare tante piccole storie come questa. Una volta sono andata a prenderlo a scuola, avrà avuto 9 anni, e il suo amichetto bianco, dopo la lezione di storia, ha detto: “Da grande diventerò il Presidente Washington e tu – puntando il dito verso Julian – sarai il mio schiavo”. Persino mia madre, bianca, che ha sposato un uomo nero e per questo è stata ostracizzata dalla sua famiglia, ha dei pregiudizi di cui non si rende conto». Nel saggio (si trova online sul suo sito) Sarah ricorda quando suo figlio ha disegnato un autoritratto a 15 anni: per lei dimostrava fierezza, ma la madre le disse di non farlo mai vedere perché ricordava l’identikit dei neri che fanno i poliziotti. «Esempi come questi mostrano quanto sia importante iniziare a discutere in maniera seria della storia del Paese, perché il razzismo ha radici molto, molto profonde». La violenza degli scontri? «Sì, c’è stata. Ma bisogna pensare anche alla violenza che viene perpetrata sui corpi della gente di colore. Se ci sono grandi ineguaglianze, se ci sono persone che vengono trattate in maniera terribile, se le loro vite non valgono nulla, allora è un problema per tutti noi. Non solo dei neri, non solo dell’America».