L’homeschooling è l’educazione su misura di ciascuna famiglia: niente voti, niente compiti, nessun banco e al posto degli insegnanti, mamma e papà. Nel 2012 si contavano una settantina di esperienze, oggi secondo i dati del ministero dell’Istruzione gli alunni che non vanno in classe ma si avvalgono della cosiddetta istruzione parentale sono 949. Di questo fenomeno, martedì 7 marzo, se ne parlerà grazie a “Figli della libertà”, un film realizzato da papà, Lucio Basadonne; mamma Anna Polio e dalla loro figlia, Gaia, otto anni. In 40 sale cinematografiche su tutto il territorio italiano sarà proiettato questo documentario che racconta la vita di chi è uscito dal “classico” sistema d’istruzione.
Nulla di illegale. L’articolo 30 della Costituzione (“È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i propri figli”) lascia a mamma e papà il compito di scegliere come insegnare loro a leggere e scrivere.
La mappa dell’educazione fai-da-te in Italia è variegata: c’è chi come Erika Di Martino, mamma di cinque figli, ha scelto l’homeschooling duro e puro dove non si segue alcun programma ministeriale, non si adotta alcun libro scolastico e non si hanno orari definiti e chi invece decide una via di mezzo, istruendo i figli tra le mura di casa ma prendendo come punto di riferimento i testi adottati dai compagni che vanno in classe e fissando un minimo di regole sulle ore di studio. Comune denominatori per tutti è l’allergia al definirsi “scuola”.
Lucio e Anna, hanno scelto una terza via, quella che i genitori degli “homeschoolers” senza se e senza ma, non includono nella loro rete: «Gaia dopo aver fatto il nido e la scuola dell’infanzia nella scuola statale a cinque anni ha viaggiato con noi per sei mesi e ha imparato a scrivere inviando cartoline agli amici» spiega Lucio, che ha voluto realizzare il film per aprire una discussione su questo tema confrontandosi anche con pedagogisti come Daniele Novara e Paolo Mottana. «Quando è tornata abbiamo iniziato la prima a casa ma si annoiava molto così alla fine abbiamo scelto di farle fare un’esperienza con altri bambini in una piccola scuola democratica di Genova, “L’Officina del crescere”». Con una spesa che va dai duecento ai trecento euro, Lucio ed Anna, decidono con altre mamme e papà e con gli educatori come istruire Gaia.
Al ministero dell’Istruzione non fanno distinzione, rientrano tutti nella categoria “Alunni in istruzione parentale”: quelli che hanno abbandonato la scuola pubblica primaria sono 269; 339 i ragazzi che fanno le medie a casa e 341 quelli della secondaria di secondo grado che hanno detto basta alle lezioni tra i banchi.
«In Italia c’è una gran confusione. Quando sette anni fa ho cominciato a fare “homeschooling” eravamo in pochi e le informazioni sul web erano rare e sbagliate» spiega Erika che ha abbandonato il posto fisso di insegnante per fare la social media manager, la scrittrice ma soprattutto per dedicarsi ai figli. «C’era la difficoltà di capire come fare questa scelta. Ho dovuto investigare, rivolgermi a degli avvocati. I genitori che sono interessati non devono buttarsi in questa esperienza senza riflettere: non è una scelta per tutti; bisogna conoscere bene i propri diritti e doveri perché le istituzioni non sanno come gestirci».
Una decisione che lascia perplesso il pediatra Paolo Sarti: «Queste esperienze da un lato mettono in evidenza i difetti della scuola pubblica; dall’altro lato espongono i bambini ad una separazione della società che può essere a rischio. La scuola pubblica è sempre stata un’occasione per confrontarci con altre idee mentre l’ “homeschooling” rischia di essere monotematica e soprattutto di non dare al bambino una serie di confronti con altre realtà».
Parole condivisibili soprattutto perché resta un’iniziativa elitaria destinata alle “anime belle” che hanno una laurea in tasca, conoscono le lingue e hanno la possibilità di stare a casa con i figli. Non solo. In un momento in cui la società è sempre più interculturale, sono rare le esperienze di scuola parentale o di “homeschooling” duro e puro, dove ci sono bambini migranti.
Non va comunque sottovalutato il fenomeno: è il sintomo di una grave malattia che la scuola pubblica non deve ignorare. Resta una speranza: quella di vedere qualche maestra della scuola statale fare autocritica e qualche mamma o papà uscire dalla riserva “homeschooling” per mettersi ad un tavolo per confrontarsi. Solo dall’incontro può nascere un’esperienza utile a tutti.