La scuola Diaz di Genova sta ai giornalisti italiani come Woodstock sta agli americani sulla settantina: più passano gli anni più aumentano coloro che giurano di esserci stati. In realtà la sera del 21 luglio 2001, davanti a quell’edificio disgraziato piazzato tra il mare e le villette a schiera di Albaro, lontano dagli scontri del G8 e dall’odore acre dei lacrimogeni che ci aveva molestato per giorni, eravamo davvero in pochi. La maggior parte di noi se n’era già andata e via Cesare Battisti appariva ancora più silenziosa e sgombra del solito. La ragione è molto semplice: in quella scuola non c’erano facinorosi organizzati, non c’erano estremisti, non c’erano black bloc. C’erano studenti, giornalisti, parecchie ragazze, persino alcuni pensionati fuori tempo massimo per il passamontagna. Niente «teoria del covo», insomma. Niente di succoso per i cronisti, niente che suggerisse un blitz delle forze dell’ordine, tantomeno a me, che avevo 24 anni e tanta inesperienza.
Anche io, come quasi tutti i colleghi, ero andato via mezz’ora prima dell’irruzione. Non potevo immaginare che un chilometro più in là, in questura, qualcuno aveva già pianificato tutto. Non potevo immaginare che il seguito della vicenda l’avrei seguito saltando per buona parte della notte tra tv locali, siti web e radio antagoniste. Senza capirci molto, per la verità, visto che le breaking news, a seconda della fonte, oscillavano schizofreniche tra la descrizione di un banale controllo di polizia e il racconto di una macelleria con tanto di morti.
I morti, per fortuna, non ci furono. La macelleria sì. E la scuola ne portava ancora i segni il mattino dopo, quando una funzionaria della questura ci accompagnò brevemente all’interno per spiegarci che nella scuola si custodivano molotov e spranghe: abbiamo scoperto anni dopo che le prime furono portate lì dalle forze dell’ordine e le seconde provenivano da un cantiere poco distante. Ci disse che la Diaz era l’infermeria del famigerato blocco nero, e i manifestanti si erano feriti prima del blitz: ma non rispose quando le chiedemmo perché allora fossimo circondati da litri di sangue fresco. Ero uscito di corsa. Dovevo vomitare. Pensai che non ero tagliato per questo mestiere, ma mi rassicurai quando vidi un giornalista assai più anziano di me scosso dagli stessi conati.
Da poco più di un anno ciò che è successo lì dentro ha un nome: tortura. Lo ha stabilito, il 7 aprile 2016, la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, sentenziando che ai feriti di quella notte spetta un risarcimento in quanto vittime di tortura, reato all’epoca non previsto dal codice penale italiano. La stessa parola l’ha pronunciata, a 16 anni di distanza da quei fatti, il capo della polizia Franco Gabrielli, anche se il riferimento è soprattutto a ciò che avvenne dopo, nel carcere di Bolzaneto dove era stata trasportata la maggior parte degli occupanti.
Il fatto che l’opinione pubblica non abbia mai completamente metabolizzato quel maledetto G8 ha permesso in questi anni le promozioni di capi e agenti coinvolti, a cominciare da Gianni De Gennaro. Consente ancora oggi il reintegro in polizia dei condannati per il blitz alla Diaz: pochi, perché allora come oggi le forze dell’ordine, in Italia, non sono obbligate ad apoore il numero di matricola sulla divisa, e anche perché la maggior parte degli agenti indagati spedì al riconoscimento fototessere vecchie di 20 anni. Senza che questo faccia scandalo per molti di noi.
Eppure le sentenze dicono che a Genova, fra il 20 e il 22 luglio 2001, le regole dello stato democratico sono state accantonate e gli uomini che avrebbero dovuto garantire la sicurezza di tutti si sono trasformati in un manipolo di torturatori a volto coperto. Mentendo, picchiando, fabbricando prove per farci digerire una brutalità che eravamo abituati a osservare e condannare solo nei documentari di terza serata sull’Argentina di Videla, e che trasportata nel mezzo di uno dei quartieri più chic di Genova somigliava a macabra fiction. Invece era tutto vero. Era vera la gamba spezzata di Giuseppe, che dormiva quasi accanto alla porta e fu uno dei primi a essere stesi a colpi di casco e manganello. Erano vere le dieci costole rotte di Armando. Erano vere le lesioni alla colonna vertebrale di cui porta ancora oggi i segni Marianna. Era vera la voce strozzata di Ulrike, che perse i sensi sussurrando «basta» e si risvegliò al pronto soccorso, dove l’avevano trasportata chiusa in un sacco nero, come fosse già cadavere. Erano vere le mestruazioni di Pauline, alla quale furono negati gli antidolorifici e persino gli assorbenti, e che dovette arrangiarsi con un fazzoletto di carta.
Non ho molti altri ricordi della «mia» Diaz se non quello di un ragionamento partorito a posteriori, al termine di quella nottata senza senso: dal punto di vista narrativo, non certo da quello morale, si trattò del finale perfetto e forse persino necessario di una tre giorni in cui scontri e violenza avevano rubato la scena a qualsiasi altra notizia. Basta un’altra istantanea a confermarlo: primo giorno del vertice, sala ovattata, conferenza stampa di saluto del primo ministro canadese che resta solo davanti a un mucchio di sedie vuote perché nel frattempo all’altro capo della città erano scoppiati i disordini. Ecco, i disordini. In piazza vige una regola non scritta, sempre la stessa, almeno da quando siamo in democrazia: durante i cortei le botte si danno e si prendono, devi metterlo in conto. Che tu abbia una divisa o no, devi farlo. Quella sera, invece, fu come se lo Stato avesse insegnato a migliaia di giovani cittadini che si affacciavano all’età adulta e all’attivismo che anche chi veniva in pace, anche chi era rimasto ai margini del conflitto, non aveva diritto alla parola, alla giustizia, alla serenità. Quella che avevamo appena ricominciato ad assaporare ad Albaro, quella sera, insieme all’aria pulita che ti entrava nelle narici ancora rosse di lacrimogeni. E che a molti è negata da 16 anni.